mercoledì 20 febbraio 2013

le associazioni sulla valutazione






tesoreria unica: i nodi arrivano al pettine

Tesoreria unica: i nodi arrivano al pettine

 
di R.P.
05/12/2012
L'Usr del Piemonte suggerisce alle scuole di semplificare il capitolato previsto dal Miur e ammette che il sistema della Tesoreria unica aumenta i costi per le scuole. Inizialmente il Ministero parlava di improbabili contratti di sponsorizzazione.
Come era facilmente prevedibile i nodi della tesoreria unica per le scuole stanno arrivando tutti quanti al pettine.
E anche l’apparato ministeriale se ne sta accorgendo e cerca di correre ai ripari.
E’ di questi giorni, per esempio, una circolare dell’USR del Piemonte con cui si forniscono consigli e suggerimenti alle scuole.
Colpiscono alcuni passaggi della circolare in cui si evidenziano problemi e difficoltà che già da tempo avevamo segnalato ma sui quali il Ministero non era ancora intervenuto.
L’Usr del Piemonte, per esempio, ammette che in molti casi le scuole hanno ricevuto dalle banche offerte molto onerose per la gestione del conto anche se in altri casi non si va al di là dei 600 euro annui (e in alcuni casi il servizio viene offerto addirittura a costo zero).
Tutte le banche, però, chiedono una commissione variabile da 1 a 3 euro per ogni mandato di pagamento emesso (una scuola di medie dimensioni emettere in un anno non meno di 2-300 mandati di pagamento).
E allora ecco i consigli dell’Usr per le scuole: interpellare il maggior numero possibile di istituti di credito e non limitarsi a quelli che operano sul territorio prossimo all’istituzione scolastica.
Ma, soprattutto, la sede piemontese del Ministero suggerisce alle scuole di rivedere il capitolato-tipo predisposto dal Miur che - si legge nella circolare -
“per il suo carattere generale, contempla una serie di servizi e di criteri di valutazione che potrebbero non essere rilevanti per le specifiche esigenze della singola istituzione scolastica”. Il problema maggiore, però, deriva dal fatto che “l’inclusione delle istituzioni scolastiche nel regime di tesoreria unica fa venir meno la possibilità per le banche di investire il denaro depositato e ricavarne una remunerazione, che pertanto si riduce all’interesse corrisposto dalla Banca d’Italia per le giacenze presenti sul sottoconto fruttifero, mediamente piuttosto esigue” . C’è davvero da chiedersi come sia possibile che questi problemi non siano stati tenuti in considerazione fin dall’inizio dai tecnici di viale Trastevere i quali, anzi, avevano addirittura previsto che le scuole avrebbero potuto ottenere consistenti vantaggi grazie a un contratto di sponsorizzazione con l’istituto cassiere.
Adesso, a distanza di mesi, la verità emerge in tutta la sua evidenza: le banche non solo non sono disponibili a sponsorizzare ma richiedono alle scuole un cospicuo compenso per il lavoro che devono svolgere.

ATTENZIONE: APPELLO CONTRO DPR SULLA VALUTAZIONE


martedì 19 febbraio 2013

chi finanzia l'università pubblica?

  • L’università pubblica italiana sembra trasferire risorse dai “ricchi” ai “poveri”, e non viceversa. Sebbene le fasce meno abbienti siano sottorappresentate nella fruizione dei servizi universitari, non lo sono a sufficienza per invertire l’effetto redistributivo dell’Irpef.
PROGRESSIVITÀ E SOTTORAPPRESENTAZIONE
Così come la sanità pubblica è finanziata sia dalle tasse dei malati che dei sani, anche l’università pubblica viene finanziata in larga parte indipendentemente dalla sua fruizione. Questo potrebbe portarla a funzionare come un “Robin Hood al contrario”. Ad esempio, se nessun “povero” fosse iscritto all’università mentre di “ricchi” ve ne fossero in abbondanza, allora le tasse pagate dai primi finirebbero indirettamente nelle tasche dei secondi. Più generalmente, questo effetto ha luogo se i “poveri” usano l’università sufficientemente meno dei “ricchi”. Ipotizzando che il fondo di finanziamento ordinario (Ffo) erogato dal ministero agli atenei sia pagato interamente attraverso l’Irpef, si può focalizzare meglio la questione attraverso la figura 1. (1)Da un lato, la curva grigia rappresenta la quota dell’Irpef totale pagata da ciascuna quota di popolazione. Se giacesse sulla diagonale del quadrante (linea tratteggiata), il 10 per cento più povero della popolazione pagherebbe il 10 per cento dell’Irpef totale, così come il 10 per cento più ricco. Invece, la curva grigia si trova al di sotto della diagonale, a indicare che i redditi più bassi pagano una percentuale dell’Irpef totale inferiore a quella pagata dai redditi più alti. Questo primo meccanismo muove le risorse dai “ricchi” ai “poveri”. Alcune voci, ad esempio quelle di Francesca Coin e Francesco Sylos Labini, si sono limitate a mostrare questo primo effetto trascurando il secondo. (2)Dall’altro lato, infatti, la curva nera rappresenta la quota sul totale degli universitari espressa da ciascuna quota di popolazione. Se giacesse sulla diagonale del quadrante, il 25 per cento più povero della popolazione esprimerebbe il 25 per cento degli studenti universitari, così come il 25 per cento più ricco. Invece la curva nera giace al di sotto della diagonale, a indicare che le fasce di reddito più basse sono sottorappresentate tra gli studenti universitari. Questo secondo meccanismo riporta nelle tasche dei “ricchi” una parte delle tasse destinate all’università. Anche qui, alcuni commenti si sono limitati a mettere in luce il secondo effetto trascurando il primo, come l’articolo di Andrea Moro. (3)Occorre invece valutare entrambi gli effetti: a seconda della loro forza relativa, l’università si troverebbe a redistribuire risorse dall’alto verso il basso o viceversa. Dunque, quale prevale?
Figura 1: Distribuzioni della quota di Irpef totale pagata e della quota di universitari espressi, entrambe rispetto alla quota di popolazione italiana ordinata per reddito lordo del massimo percettore all’interno della famiglia (anno 2010).
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Fonte
: Banca d’Italia.
IL SALDO PER I SERVIZI UNIVERSITARI
Nel rispondere a questa domanda, Andrea Ichino e Daniele Terlizzese hanno concluso che l’università trasferirebbe risorse dai “poveri” verso i “ricchi”. (4) Qui vorremmo mostrare che sembra invece essere vero il contrario. A tale scopo, usiamo dati e definizioni di costi e ricavi legati all’università identici a quelli adottati da Andrea Ichino e Daniele Terlizzese. Tuttavia, a differenza loro, non stabiliamo alcuna definizione particolare di “ricchi” e “poveri”: più semplicemente, in figura 2 mostriamo il saldo rispetto ai servizi universitari per ciascun decile della popolazione italiana ordinata rispetto al reddito. In questo bilancio, il costo per ciascuna fascia di reddito è dato dall’ammontare di Ffo che essa paga attraverso l’Irpef; invece il ricavo corrisponde alla parte di Ffo di cui ciascuna fascia di reddito beneficia attraverso l’iscrizione dei figli all’università. (5) Sottraendo i costi ai ricavi, si ottiene il saldo rispetto ai servizi universitari per ciascuna fascia di reddito. Come illustrato in figura 2, le nove fasce di reddito più basse sono in attivo: cioè godono di una parte dei servizi universitari superiore a quella che contribuiscono a finanziare tramite l’Irpef. Al contrario, il 10 per cento più ricco della popolazione è in passivo: cioè finanzia l’università in misura maggiore di quanto la utilizzi. Quindi, se l’università fosse finanziata interamente attraverso l’Irpef, sposterebbe le risorse dai “ricchi” ai “poveri”, e non viceversa.
Figura 2: Saldo rispetto ai servizi universitari per ciascun decile della popolazione italiana ordinata rispetto al reddito. Un saldo positivo indica che il decile in esame riceve risorse dagli altri decili della popolazione. Un saldo negativo indica che il decile in esame trasferisce risorse verso gli altri decili.
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Fonte: Banca d’Italia.
LIMITI E IMPLICAZIONI
Tutte le analisi inerenti gli effetti redistributivi dell’università pubblica in Italia condividono alcuni limiti intrinseci. La nostra non fa eccezione. In particolare, alcuni di questi limiti gonfiano il saldo delle fasce meno abbienti rispetto ai servizi universitari, mentre altri lo riducono. Nella prima categoria ricadono (i) l’assenza di una correzione dei dati per l’evasione fiscale e (ii) il trascurare che parte del Ffo è raccolto attraverso tasse indirette (regressive). Nella seconda categoria ricadono invece gli effetti legati (i) alle tasse universitarie, (ii) ai sussidi per il diritto allo studio e (iii) alla maggiore propensione delle famiglie più abbienti ad avere figli iscritti presso università estere o private. È possibile che i diversi effetti si compensino, oppure no: per saperlo con certezza occorre raccogliere dati migliori. Fatte queste precisazioni, e fino a prova contraria, i “ricchi” hanno un chiaro incentivo redistributivo a cambiare l’attuale meccanismo di finanziamento dell’università pubblica. D’altro lato, il fatto che il sistema sia equo rispetto al censo non implica in alcun modo che sia anche efficiente, ovvero che le risorse di cui dispone siano usate nel migliore dei modi al proprio interno. E questo potrebbe costituire un’argomentazione del tutto distinta in supporto di eventuali cambiamenti della macchina dell’università pubblica.
(1) Si noti che la semplificazione secondo cui il Ffo è finanziato interamente attraverso l’Irpef deriva essenzialmente da una carenza di dati più completi, e pertanto è comune alla gran parte delle analisi sul tema. Ad esempio, Ichino e Terlizzese usano questa semplificazione nelle loro analisi.
(2) Francesca Coin e Francesco Sylos Labini: “Tasse universitarie: i numeri di Ichino e Terlizzese” (www.roars.it, 19 gennaio 2013).
(3) Andrea Moro, “I redditi delle famiglie degli universitari” (www.noisefromamerika.org, 12 settembre 2012).
(4) Andrea Ichino e Daniele Terlizzese, “Se i poveri pagano l’università ai ricchi” (Corriere della Sera, 10 dicembre 2012) e “Tasse e benefici universitari: una risposta a Roars” (www.scienzainrete.it, 5 gennaio 2013).
(5) Tutti questi dati e il risultato che ne deriva sono già contenuti nella figura 1. Tuttavia, la visualizzazione del saldo attraverso la figura 1 è più difficile, poiché occorre confrontare le pendenze relative delle due curve. Per questo abbiamo reso il risultato più fruibile visivamente attraverso la figura 2.

università: ma i poveri studiano con i soldi dei poveri

Nel giudicare l’equità del trasferimento di risorse implicito nel finanziamento pubblico degli atenei va considerato che i benefici associati all’acquisizione della laurea sono per lo più individuali. E una parte preponderante dei contribuenti meno abbienti non ha figli iscritti all’università.
LA LAUREA, CHI LA FINANZIA E CHI NE BENEFICIA
Giudicare l’equità del sistema di finanziamento dell’università è difficile, sia per le limitazioni dei dati disponibili, sia per problemi concettuali che attengono alla natura dell’investimento in istruzione superiore.
In un articolo sul Corriere della sera del 10 dicembre 2012 e nella versione a stampa del nostro libro avevamo posto la questione in questi termini: qual è il saldo tra quanto ciascuna classe di reddito riceve del servizio offerto dall’università e quanto paga per finanziarlo? (1) Avevamo dato una risposta che, utilizzando i dati allora a disposizione, richiedeva l’integrazione di due fonti diverse e per questo soffriva di una limitazione. Di questa limitazione ci siamo in seguito resi conto, anche grazie a nuovi dati non ancora pubblici che solo recentemente abbiamo potuto avere dalla Banca d’Italia. Soprattutto, ci siamo convinti che la questione vada posta in termini diversi, più coerenti con la natura fondamentalmente privata dei rendimenti dell’investimento in istruzione superiore. Nella versione elettronica del libro, così come nell’intervento su Scienza in Rete del 5 gennaio 2013, la affrontiamo quindi chiedendo: ci sono cittadini poveri che pagano per finanziare il servizio offerto dall’università senza usufruirne? Quanti sono? Quanto pagano? E chi riceve il trasferimento da loro effettuato?
Il contributo di Ugo Gragnolati e Emanuele Pugliese ritorna a porre la questione nei termini in cui l’avevamo originariamente formulata. Utilizzando i nuovi dati, che noi stessi abbiamo loro fornito, possono superare la limitazione del nostro primo calcolo e ottengono una risposta diversa da quella che avevamo dato noi. Dati i termini in cui tornano a porre la questione, la loro è la risposta corretta.
Ma quel che loro affermano non è in contrasto con le conclusioni derivanti dal nostro nuovo modo di porre la questione, che crediamo sia quello giusto per giudicare dell’equità del finanziamento dell’università. Quelle conclusioni ci portano a confermare l’idea che ci sia un trasferimento dai poveri ai ricchi; non si tratta però di tutti i poveri, come inizialmente pensavamo e come è giustamente negato dall’analisi di Gragnolati e Pugliese, ma di un gruppo preponderante: quelli che non mandano i propri figli all’università. Vediamo perché.
Il nostro calcolo iniziale si basava sull’integrazione tra i dati del dipartimento delle Finanze e quelli dell’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie, che rileva solo il reddito al netto delle imposte, non quello lordo. La difficoltà dell’integrazione deriva dal fatto che l’Irpef è pagata dai singoli percettori di reddito (e quindi a loro si riferiscono i dati delle Finanze), mentre gli studenti universitari sono associati a famiglie di cui possono fare parte numerosi percettori. Non è agevole quindi una corrispondenza tra le due fonti che consenta di associare univocamente ciascuno studente con le tasse pagate da chi guadagna nella sua famiglia. Il problema può essere superato utilizzando nuovi dati non ancora pubblici, prodotti da ricercatori della Banca d’Italia e che abbiamo potuto avere dopo la stampa del libro: i dati contengono una ricostruzione analitica dell’Irpef effettivamente pagata dai percettori dell’indagine della Banca d’Italia e dei redditi familiari e personali al lordo dell’imposta.
Anche indipendentemente dalla disponibilità dei nuovi dati, crediamo però che l’equità del trasferimento di risorse implicito nel finanziamento pubblico dell’università vada affrontata in un modo diverso, più coerente con la natura dell’investimento in istruzione superiore. Come argomentiamo diffusamente nel libro, i benefici associati all’acquisizione di una laurea sono, almeno in larga parte, individuali: chi ha provato a misurare i benefici indiretti di cui godrebbero i cittadini non in possesso di un’istruzione superiore, semplicemente come conseguenza del fatto che dei loro concittadini hanno invece acquisito quel livello di istruzione, ha trovato poco o nulla. (2) Nel gergo economico, le esternalità associate all’istruzione superiore sembrano essere modeste. Quindi, se vogliamo valutare i benefici netti derivanti dal servizio universitario, una famiglia povera senza figli all’università è in una posizione molto diversa da una che, pur con lo stesso reddito, ha figli universitari; piuttosto che guardare ai trasferimenti tra classi di reddito, sembra più appropriato tenere conto anche della presenza o meno di figli universitari, adottando una classificazione bivariata.
TRASFERIMENTI COMUNQUE INIQUI
Definiamo poveri quei percettori di reddito che guadagnino meno di 31mila euro lordi all’anno e appartengano a famiglie in cui nessun percettore guadagni più della stessa cifra. La soglia corrisponde a circa 1.600 euro netti mensili per un lavoratore dipendente senza familiari a carico. Questi percettori sono (su dati 2010; nella versione elettronica del libro riportiamo questi conti per il 2008) poco meno dell’80 per cento di chi paga l’Irpef in Italia; una parte consistente di essi (che corrisponde al 70 per cento del totale dei contribuenti Irpef) vive in famiglie di cui non fanno parte studenti universitari. Quindi, il 70 per cento dei contribuenti sono relativamente poveri e non ricevono alcun servizio diretto dagli atenei italiani. D’altro canto, pagano il 37 per cento dell’Irpef. Contribuiscono perciò, per il 37 per cento, a finanziare tutta la spesa pubblica, anche quella per l’università. Dati i quasi 7 miliardi annui spesi dallo Stato per gli atenei (ci limitiamo al solo Ffo), possiamo allora concludere che il 37 per cento di questa spesa, ossia circa 2,5 miliardi, è finanziata da contribuenti poveri che non ricevono alcun servizio diretto dal sistema universitario, perché non hanno figli all’università.
Chi beneficia di questo finanziamento? Una parte dei beneficiari sono gli studenti universitari appartenenti alle famiglie relativamente più abbienti, ossia quelle in cui almeno un percettore di reddito guadagna più di 31mila euro lordi. Questi studenti sono quasi il 40 per cento del totale (sempre nel 2010) e quindi le loro famiglie ricevono quasi 1 miliardo di euro all’anno dai percettori poveri che pagano l’Irpef e non hanno figli (o altri parenti conviventi) all’università. A noi sembra indiscutibile che questo sia un trasferimento iniquo.
La restante parte dei 2,5 miliardi va a finanziare gli studenti universitari provenienti invece dalle famiglie composte da contribuenti altrettanto poveri, ma con figli all’università; da queste famiglie proviene circa il 60 per cento degli studenti universitari. Si tratta, in questo caso, di un trasferimento “tra poveri”: da quelli senza a quelli con figli all’università.
È lecito pensare che, essendo un trasferimento tra poveri, non debba destare problemi di equità. Noi lo interpretiamo invece come un trasferimento verso i ricchi di domani. Sappiamo, confortati da un’ampia evidenza nazionale e internazionale, che uno studente universitario guadagna molto dal conseguimento di una laurea, e quindi l’affermazione che gli studenti universitari di oggi siano (mediamente) i ricchi di domani ci sembra abbia una solida base empirica. Quindi anche la seconda componente del trasferimento ci sembra iniqua: se uno di questi studenti universitari provenienti da famiglie povere dovesse diventare in futuro un brillante professionista, per quale motivo avrebbe diritto all’ingente regalo ricevuto da altri poveri che non traggono alcun beneficio diretto dal suo successo professionale?
Comunque la si pensi su questo ultimo aspetto, tuttavia, resta il fatto che una parte preponderante dei contribuenti meno abbienti finanzia l’università senza beneficiarne, e che quasi la metà del trasferimento implicito di risorse va a favore di contribuenti più abbienti. Osserviamo peraltro che la nostra stima di quanto grande sia questa parte è verosimilmente per eccesso, poiché alcuni di coloro che oggi non hanno figli all’università possono averli avuti nel passato, o averli nel futuro. Per fare una valutazione più accurata servirebbero dei dati longitudinali, che non abbiamo. Sappiamo però che la mobilità sociale nel nostro paese è molto bassa, e quindi non crediamo che un’analisi più accurata darebbe risultati significativamente diversi.
Per concludere, l’analisi di Gragnolati e Pugliese giustamente rileva, correggendo nostre precedenti affermazioni, che se consideriamo i poveri nel loro insieme essi beneficiano dal finanziamento pubblico dell’università, perché la progressività dell’imposta è sufficiente a compensare il ridotto utilizzo che fanno di questo servizio. Tuttavia, è solo una parte limitata di questi poveri che realmente riceve un ingente trasferimento netto positivo: i pochi che mandano i loro figli all’università. La parte preponderante paga senza ricevere nulla.
Inoltre, pensiamo che abbia ragione Kenneth Arrow quando sostiene che l’utilizzo di risorse pubbliche nell’istruzione terziaria porta all’effetto paradossale di aumentare la disuguaglianza nella società: chi frequenta l’università proviene prevalentemente da famiglie che già hanno risorse intellettuali maggiori e talento superiore; quindi finanziare i loro studi con denaro pubblico significa dotarle di strumenti che rafforzeranno il loro vantaggio, a spese degli altri. (3)Infine, osserviamo che se anche si volesse effettuare un intervento redistributivo attraverso il finanziamento dell’università, sembrerebbe più trasparente e soprattutto meno aleatorio realizzarlo attraverso tasse universitarie opportunamente differenziate in modo progressivo, cioè che incidano proporzionalmente di più sui redditi familiari più elevati (ben diverse da quelle attualmente previste nelle università pubbliche del nostro paese): nella situazione attuale il grado di trasferimento tra classi di reddito finisce per dipendere dalle decisioni decentrate e indipendenti delle famiglie circa l’iscrizione dei propri figli all’università, invece che da una scelta consapevole ed esplicita del Parlamento, come invece crediamo che dovrebbe essere per ottemperare al dettato costituzionale.
(1) Andrea Ichino e Daniele Terlizzese, Facoltà di scelta, Rizzoli, 2013.
(2) Una stima per l’Italia è in Federico Cingano e Piero Cipollone, “I rendimenti dell’istruzione”, QEF, Banca d’Italia, 2009; un’altra, fatta per numerosi paesi, è in George Psacharopoulos, “Returns to Investment in Higher Education: A European Survey”, 2009.
(3) Kenneth Arrow, Education Economics, Volume 1, Issue 1, 1993

quale (misero) fondo alla vostra scuola

Quale (misero) fondo alla vostra scuola?

Pubblicato da comitatonogelmini su 18 febbraio 2013
pochi-soldi
di Comitato Genitori ed Insegnanti per la Scuola Pubblica di Padova
18 febbraio 2013
Con nota MIUR.AOODGPFB.REGISTRO UFFICIALE.0001067.18-02-2013, in esecuzione dell’Intesa siglata il 30 gennaio scorso e in attesa del perfezionamento dell’ipotesi di CCNl del 12 dicembre scorso, il Miur ha definito le assegnazioni in acconto del MOF Lordo Stato per l’a.s. 2012/2013 per il finanziamento degli istituti contrattuali di cui all’art. 88 del CCNL 29.11.2007 (Fondo dell’Istituzione Scolastica) e delle risorse per il finanziamento degli istituti contrattuali di cui agliartt. 33 (funzioni strumentali), 62 (incarichi specifici per il personale ATA), 30 (ore eccedenti sostituzione colleghi assenti) e 87 (progetti pratica sportiva).
L’acconto è pari al totale del MOF per il periodo settembre-dicembre 2012 e al 50% dell’importo rimodulato riferito al periodo gennaio-agosto 2013 e va gestito secondo le modalità previste dal cedolino unico.
Il totale è di 527.072.479,04 euro, così suddivisi
  • 410.489.870 totale acconto FIS
  • 50.335.797, 30 totale acconto funzioni strumentali
  • 21.998.830,16 totale incarichi specifici
  • 19.999.526,28 totale acconto ore eccedenti
  • 24.248.454,98 acconto pratica sportiva
Per sapere quanti (pochi) soldi hanno ricevuto le vostre scuole cliccate qui: troverete il corposo documento (292 pagine) che riporta l’ammontare di tutte le istituzioni scolastiche italiane.
Attenzione! Per trovare la vostra dovete conoscere il suo codice meccanografico identificativo: i nomi delle singole istituzioni non sono infatti riportati (alla faccia della trasparenza…)

una scuola aperta all'adozione

Una scuola aperta all’adozione

Teacher at Chalkboard, ph.cybrarian77 (cc. flicker)
Teacher at Chalkboard (CC BY-NC 2.0) by cybrarian77
La scuola ed il suo contesto così presente nella vita dei bambini, costituisce un investimento importante per la costruzione del loro futuro. In Italia non esistono misure unanimi per inserire il bambino adottato nel sistema scolastico, nè esiste un supporto lungo l’intero ciclo. Ma, si può far qualcosa? In realtà sì, agendo con forza e determinazione si può raggiungere l’obiettivo. Questo è quanto è emerso dall’incontro “Una scuola aperta all’adozione”. Di seguito il nostro report con appunti e riflessioni
I dati delle adozioni in Italia, dal 2009 al 2011, dimostrano come aumenti sempre di più il numero dei bambini che hanno un età scolare al momento del loro arrivo nella nuova famiglia. Dal 2009 al 2011 dei 12.116 bambini adottati tramite adozione internazionale:
- 3172 hanno un’età compresa tra i 3/5 anni (scuola infanzia)
- 4945 hanno un’età compresa tra i 6/10 anni (scuola primaria)
- 742 hanno un’età compresa tra gli 11/13 anni (scuola media inferiore)
- 275 hanno oltre 14 anni (scuola media superiore)
Questi dati devono far riflettere, ogni cifra infatti porta con sé un vissuto che è necessario tenere in considerazione. Talvolta l’inserimento scolastico si sovrappone al “fare famiglia”, la scuola assume così un ruolo centrale in quanto prima organizzazione esterna alla famiglia, e rappresenta il primo ingresso del bambino nel mondo sociale. Molti sono i genitori che temono questo impatto, hanno paura di non riuscire a proteggere il proprio figlio da quegli sguardi talvolta troppo curiosi e da quelle domande banali e invadenti. Assieme al fattore emotivo vi sono anche aspetti pratici che vanno tenuti in considerazione ad esempio il problema della scelta della classe, se e in che modo e’ opportuno affrontare la storia personale con i compagni, cosa fare quando il sistema normalizza e la fatica aumenta….
Porsi delle domande consente di sviluppare un confronto e questo e’ il punto di partenza per ottenere un cambiamento. L’ interesse sviluppatosi negli ultimi anni in merito a questa tematica (Convegni, creazione delle linee guida e dei protocolli, la carta d’intenti di Livia Botta nel corso “Alunni adottati in classe”, le varie disposizioni del MIUR, la nascita del gruppo CARE, i libri ….) auspica un cambiamento. Il primo passo in questa direzione e’ avvenuto a giugno con la trasmissione della circolare ministeriale n° 3484. Il fine di questo documento e’ creare delle linee guida per attuare soluzioni organizzative e normative, in modo da favorire una buona accoglienza; inoltre la stessa circolare prevede di riunire le buone prassi organizzative e didattiche utilizzate fino a quel momento da alcune strutture scolastiche, in modo da divulgare un nuovo metodo per l’approccio alla tematica adottiva. Un primo effetto di tale circolare e’ stato riscontrato nella “nascita” dell’insegnante referente. Data la novità di questa figura, è opportuno spiegare il suo ruolo: l’insegnante referente è molto importante, in quanto media il rapporto tra scuola e famiglia, facendosi carico delle informazioni e delle preoccupazioni che i genitori riferiscono; inoltre ha il dovere di riportare in consiglio di classe quanto ha appreso precedentemente dal racconto dei genitori. In questo modo nulla viene dato per scontato e, si curano le informazioni, affinché quest’ultime siano considerate con un’adeguata attenzione al caso, evitando una dispersione delle stesse.
All’interno del lavoro del MIUR si vuole parlare di specificità dell’adozione in modo da individuare i punti sensibili della storia del bambino adottato, riconoscendo le eventuali difficoltà nell’apprendimento e soprattutto si vuole porre al centro del lavoro, a scuola, la FLESSIBILITA’. Per lavorare con l’adozione è necessario e fondamentale comprendere che essa è costituita da un PRIMA e un DOPO: un passato fatto di traumi, ma anche contrassegnato dalla capacità di sopravvivenza e di resilienza personale agli “urti” della vita, e un presente caratterizzato dall’amore, dal calore di una famiglia. Tutto questo non cancella il passato piuttosto aiuta a farci i conti per arrivare al domani più sereni. Il transito tra le varie fasi richiede anni, è un percorso lento che talvolta occupa tutta la vita.
Per fare in modo che il bambino possa trovare conforto e sostegno, è necessario curare la fase di pre-iscrizione. Il “fare rete” tra famiglia, insegnanti e servizi in questo momento sembra essere fondamentale in modo da definire assieme la situazione, pianificando così il lavoro scolastico. In accordo con le insegnanti si può prevedere un periodo di inserimento graduale in cui i genitori accompagnano il figlio giorno dopo giorno a familiarizzare con l’ambiente; ciò consente di poter prendere confidenza con quel cortile, in cui scorazzerà assieme ai compagni e con quel banco sul quale giorno dopo giorno comprenderà la vita e costruirà mattoncino per mattoncino il suo futuro.
Spesso nel parlare di scuola e adozione, i docenti vengono messe sotto accusa, perché in alcuni casi mostrano poca volontà nel cambiamento. Possiamo però chiederci: “Si tratta di mancanza di sensibilità o di solitudine nel gestire le problematiche e le diverse realtà della classe?” E’ scontato affermare che la sensibilità è uno degli “ingredienti” essenziali di questo lavoro, per cui oltre alle nozioni è necessario mostrare il proprio “lato umano”. Spesso le insegnanti vengono accusate, sottovalutate e devono saper gestire le varie realtà che in una sola classe si possono trovare: alunni figli di genitori separati, alunni immigrati, alunni adottati, alunni figli di famiglie allargate, alunni in affido….In realtà alla base di determinati atteggiamenti “sbagliati” vi è una mancanza di formazione, di tempo, della stimata flessibilità e di figure professionali competenti che possano supportare e fornire un adeguato sostegno. In alcuni casi il comportamento dell’insegnante deriva dalla reazione difensiva di fronte alla sofferenza altrui, poiché è difficile riuscire a rielaborarla e a gestirla. Le insegnanti possono trovarsi faccia a faccia con il trauma dell’abbandono senza avere i giusti mezzi per contenerlo.
Se si considerano questi aspetti, si può arrivare ad affermare che non è giusto “condannare” una figura a priori, ma sarebbe corretto supportarla in modo adeguato. Per migliorare le cose potrebbe essere utile uno spazio di dialogo, discussione e ascolto. Solo in questo modo si cresce realmente e si impara ad affrontare nuove situazioni. In fondo parlare di adozione a scuola potrebbe essere più semplice di quanto si pensa, non è necessario intimorire o banalizzare; forse il modo migliore sarebbe quello di parlare nella quotidianità di pluralità di forme familiari. E’ importante mostrare ai giovani del futuro, come la società si sia evoluta nel corso degli anni e come abbia trasformato anche la famiglia, perdendo così il suo aspetto prettamente tradizionale.
Non esistono parole adeguate o forme migliori per parlare di adozione, i bambini comprendono a partire dalla naturalezza e dalla spontaneità. Parlare di diversità consente ad ogni bambino di esplorare il mondo e di scoprire che certi odori, sapori e colori esistono per davvero.

mercoledì 13 febbraio 2013

dimensionamento rete scolastica 2013-14

Schema di intesa Governo, Regioni ed Enti Locali del 18 gennaio 2013 - dimensionamento rete scolastica

aumentano gli alunni ma non il numero delle cassi

fonte: flc-cgil

Organici scuola 2013-2014: aumentano gli alunni ma non il numero delle classi

Primo incontro al MIUR sulla "previsione alunni e organici docenti" per il prossimo anno scolastico.

30/01/2013
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Il MIUR, nell’incontro di ieri, ha consegnato ai sindacati alcune tabelle contenenti i dati sugli alunni “effettivi” (in organico di fatto) degli ultimi 6 anni, dati sia totali che suddivisi per singoli gradi di scuola (eccetto infanzia) e la proiezione che il sistema fa per l’anno prossimo, tenendo conto che il dato reale non si avrà se non ai primi di marzo (la scadenza delle iscrizioni, infatti, è al 28 febbraio).
Dalle tabelle consegnate si evince una previsione di incremento di circa 21.000 alunni nella primaria, un calo di circa 7.700 alunni nella media ed un incremento di circa 13.380 alunni nel secondo grado. In totale, quindi, circa 26.700 alunni in più.
Non si tiene conto, come noto, del dato degli alunni nell’infanzia in quanto tale andamento non incide sulla dotazione organica di diritto. Infatti, in questo grado di scuola, si conferma ogni anno l’organico di fatto dell’anno precedente cosi come attivato nelle varie regioni.
Dai dati consegnati si conferma di nuovo, complessivamente, un calo nelle regioni del sud (maggiore in percentuale in Molise, Basilicata, Calabria e Sicilia) ed un incremento nelle regioni del centro-nord (maggiore in percentuale in Emilia Romagna, Lombardia, Umbria e Toscana).
Il MIUR ha poi ricordato che la legge di stabilità (art. 19 della legge n. 111/2011) ha stabilito che “non si può superare” la dotazione complessiva autorizzata nell’anno scolastico 2011-2012 e questo anche a fronte di due anni di incremento di alunni (+ 28.000 per l’anno in corso 2012-2013, + 26.700 per il prossimo anno).
Per cui il MIUR, nella predisposizione del prossimo decreto interministeriale sull’organico di diritto (e consueta circolare sugli organici), dovrà confermare il dato complessivo dello scorso anno (ovvero 600.839 posti comuni e 63.348 posti di sostegno).
Di conseguenza, l’unica possibile variazione (modesta) tra regione e regione dovrà tenere conto, ovviamente, delle variazioni del numero di alunni.
Inoltre (e questo, ci è stato detto, lo chiede il tesoro) si dovrà tenere conto anche del fatto che la messa a regime del tempo scuola a 27 ore fino in classe quinta nella scuola primaria, dovrebbe poter consentire un ulteriore “risparmio” (circa 2.000 posti)!

La posizione della FLC CGIL

La FLC CGIL ha dichiarato sin da questo primo incontro, ancorché interlocutorio, che:

  1. è inaccettabile, a fronte di un aumento significativo di alunni per ben due anni consecutivi (28.000 l’anno scorso + 26.700 quest’anno = 57.700 totali), che non si prevede, quantomeno, un corrispondente aumento del numero delle classi (non meno di 2.000 in più) e di posti docenti in organico di diritto (+ 4.000 almeno). Queste disposizioni si configurano come palesemente lesive del diritto costituzionale allo studio, visto che non consentiranno neanche il rispetto dei parametri numerici per la costituzione delle classi. Non è poi possibile gestire gli incrementi di alunni drenando risorse interne al sistema, mettendo in questo modo i territori in contrapposizione tra loro mentre le esigenze di tutti sono legittime e dovrebbero trovare ascolto attento da parte dell’amministrazione;
  2. è inaccettabile che non si autorizzi quanto serve in organico di diritto per poi dover derogare, necessariamente, in organico di fatto. Per di più con il Mef che, tra l’altro, ci addebita anche il costo di queste deroghe (si veda la vicenda “accordo sul recupero scatti 2011” e mancata certificazione dei risparmi del 30% sui tagli);
  3. nessuno “scippo” di posti potrà essere tollerabile nella scuola primaria per il fatto che il tempo scuola “ordinamentale” sia ormai a regime dalle prime alle quinte classi e sia diventato a 27 ore settimanali. Tutte le scuole che negli ultimi due anni hanno garantito non solo il mantenimento del tempo pieno, ma anche un tempo scuola a 30 ore, debbono poter continuare a farlo. Quindi abbiamo chiesto che non sia decurtato alcun posto nella primaria e che si confermi quanto già previsto nella circolare dello scorso anno, vale a dire la possibilità di lasciare nella singola scuola le ore in più necessarie per le 30 ore e derivanti dal mancato computo per tutti degli organici a 27 ore;
  4. è inaccettabile, per quanto riguarda la dotazione di sostegno, che si rimanga fermi a 63.348 posti (una dotazione che risale al lontano 2007, finanziaria Prodi) quanto la dotazione effettiva consolidata come necessaria (vedi sentenza della Corte Costituzionale) supera ormai abbondantemente, da diversi anni, le 90.000 unità (quest’anno si è superato quota 101.000);
  5. il MIUR, infine, dovrà dare chiare indicazioni nella circolare (visto anche che abbiamo tempo per la sua predisposizione) sui diversi aspetti problematici che si sono verificati lo scorso anno.

rileggiamo don milani

Vivalascuola. Rileggiamo don Milani

Pubblicato da vivalascuola su febbraio 4, 2013

Rileggere Lettera a una professoressa significa tornare alle questioni di base, alla funzione ideologica della scuola e a quella di selezionatrice della classe dirigente… Lettera a una professoressa ci insegna la democrazia, l’esatto contrario dell’Italia contemporanea, corporativa, razzista, opportunista e cinica, dove uomini mediocri – dietro ai quali, tuttavia, ci sono precisi gruppi di potere intelligenti – decidono i destini d’intere generazioni… (Stefano Guglielmin, qui)

Recanati: giornata del ricordo


rcannati: percorso della scuola media nella giornata del ricordo

sintesi delle posizioni delle liste sulla scuola


fonte: tecnica della scuola

martedì 12 febbraio 2013

VADEMECUM PER CHI NON SCEGLIE L'INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA

da consulta laica Torino - 

Vademecum per chi non sceglie l'insegnamento della religione
cattolica


Al fine di garantire una corretta informazione in merito alla scelta
se avvalersi o meno dell'insegnamento della religione cattolica nelle
scuole e soprattutto di vedere concretamente garantite le 4 opzioni
(compresa quella delle materie alternative) a disposizione di chi non
intenda avvalersene, si pubblica questo breve Vademecum informativo
complessivo su tutta la vicenda dell'insegnamento della religione
cattolica (IRC) e dell'ora alternativa.

Si ricordi che IRC:
-    è un insegnamento confessionale cattolico, in quanto gli
insegnanti sono selezionati dalla curia, con titoli di studio
conseguiti presso istituti riconosciuti dalla Santa Sede e non con
concorsi pubblici.
-    si tratta di una condizione di privilegio nei confronti di una
confessione, sia pure la più numerosa  nel paese, che spesso si
traduce nella presenza di una forte simbologia cattolica in una
scuola che dovrebbe essere laica e pubblica.
-    è una materia pienamente facoltativa (Nuovo Concordato del 1984;
sentenze che la Corte Costituzionale ha emesso sulla questione: n.
203/1989, n. 13/1991, n. 290/1992 e relative circolari applicative):
avvalersi o non avvalersi dell´IRC(insegnamento della religione
cattolica) è una libera scelta. L´art. 9 della legge n. 121 del 1985,
che recepisce il neo-Concordato del 1984, dispone che il diritto di
scegliere se avvalersi o non avvalersi dell´IRC è garantito a
ciascuno e che tale scelta non può dare luogo ad alcuna forma di
discriminazione
-    la scelta va fatta all´atto dell´iscrizione ed «ha effetto per
l'intero anno scolastico cui si riferisce e per i successivi anni di
corso nei casi in cui è prevista l'iscrizione d'ufficio, fermo
restando, anche nelle modalità di applicazione, il diritto di
scegliere ogni anno se avvalersi o non avvalersi dell'Irc» (Intesa
tra la CEI e il MPI :Punto 2.1 del DPR 751/85; DL 297/94 artt..310-
11,Testo Unico sulla legislazione scolastica). La scuola deve ogni
anno fornire un'adeguata e tempestiva informazione per garantire la
possibilità di modificare o confermare la scelta: quindi i genitori o
gli studenti che intendono cambiare la scelta per l'anno scolastico
successivo devono notificarlo espressamente alla scuola entro gennaio-
febbraio, mesi delle iscrizioni.

Se non ci si avvale dell´IRC ci sono quattro diverse possibilità, che
le scuole sono tenute a garantire tutte:
1) "attività alternative" all´IRC (indicate nei moduli delle scuole
come "attività didattiche e formative") . Per la difficoltà di
gestire l´orario degli insegnanti, per la carenza di fondi, per i
tagli al personale, le scuole tendono a non attivarle. Ma, se sono
richieste (anche da un solo studente, così come per l´IRC), la scuola
è tenuta ad organizzarle. Sono deliberate dal Collegio dei
docenti,sentito il parere di alunni e genitori, e prevedono un
programma e un docente apposito, oltre alla valutazione del profitto
sotto forma di giudizio (escluso dalla media dei voti). Occorre
chiarire che l´attività alternativa è dovuta e, qualora non ci
fossero i docenti, si deve procedere alla chiamata di un incaricato,
come si farebbe per qualsiasi altra disciplina. Le attività sono
finanziate con i fondi di appositi capitoli di spesa stabiliti ogni
anno, regione per regione, con la Legge Finanziaria ("Spese per
l'insegnamento della religione cattolica e per le attività
alternative all'insegnamento della religione cattolica, con
esclusione dell'IRAP e degli oneri sociali a carico
dell'amministrazione").
2) studio individuale: la scuola deve individuare locali idonei ed
assicurare adeguata assistenza.
3) libera attività di studio e/o ricerca senza assistenza di
personale docente. La scuola è comunque tenuta a garantire la
sicurezza e la vigilanza.
4) non essere presente a scuola: chi non ha scelto l´IRC non ha alcun
obbligo, e quindi non è tenuto ad essere presente a scuola durante
l´ora di IRC.. Naturalmente i genitori degli allievi minorenni devono
dichiarare per iscritto che consentono ai figli di assentarsi dalla
scuola in quelle ore. Questa possibilità è stata inizialmente
definita dalla circ. min. 9/1991 applicativa delle sentenze della
Corte costituzionale n.203/1989,n.13/1991 per le quali chi non segue
l´insegnamento della religione cattolica è in uno "stato di non
obbligo".
Non obbligo significa non essere costretti a nulla contro la propria
volontà. (ad es. non si può essere trasferiti in classi diverse dalla
propria, non si può essere costretti a stare in classe durante
l´IRC, non si può essere costretti a scegliere l´uscita dalla scuola
se non è una libera scelta, non si
può essere costretti a fare un´attività alternativa se non si è
liberamente scelta quell´opzione).
Ovviamente l'insegnante di RC non deve partecipare agli scrutini di
chi non si avvale. Per chi si avvale, il DPR 202 /1990 al punto 2.7
recita : "nello scrutinio finale, nel caso in cui la normativa
statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il
voto espresso dall´insegnante di religione cattolica, se
determinante, diviene un giudizio motivato iscritto a verbale", ciò
al fine di evitare promozioni (o bocciature) determinate soltanto
dalla scelta dell´IRC. Tale norma vale anche, allo stesso modo, per i
docenti di materia alternativ
Anche se questa disposizione non dovrebbe dare adito a
interpretazioni controverse, vi sono sentenze discordanti emesse da
Tribunali Amministrativi Regionali. Che il giudizio motivato,
trascritto a verbale, non sia rilevante sul piano del computo
effettivo dei voti è chiaramente affermato nella Sentenza n. 780 del
16 ottobre 1996 emessa dalla prima sezione del TAR del Piemonte,
oltre che dalla limpida interpretazione del ministro P.I. on.
Giancarlo Lombardi, in carica nel 1990.

COMPORTAMENTI ILLEGITTIMI
Sulla base di quanto detto e in rapporto alla laicità della scuola
pubblica, alcuni comportamenti tenuti dalla scuola sono illegittimi.
Ad esempio:
o non organizzare le attività previste e scelte in alternativa
all'IRC
o consegnare moduli che non prevedono rigorosamente le 4 opzioni
o  convincere i genitori a cambiare la scelta espressa
o  impedire di cambiare la scelta da un anno all'altro
o impedire all'allievo di uscire dalla scuola durante l'ora di
religione e/o fissare l'IRC in un orario che impedisca l'uscita da
scuola (in particolare nella scuola materna ed elementare)
o  utilizzare l'ora di religione per altre attività scolastiche
o fare propaganda religiosa all'interno della scuola (visite
pastorali, pellegrinaggi, benedizioni...)
o  valutazione in pagella dell'IRC e/o delle attività alternative
o  richiesta di pagamento per usufruire delle attività alternative. A
tale proposito in una nota del 7 marzo 2011 del ministero
dell´Economia e delle Finanze concordata con il MIUR si evidenzia che
:

Al riguardo, poiché a seguito della scelta effettuata dai genitori e
dagli alunni, sulla base della normativa vigente, di avvalersi
dell'insegnamento delle attività alternative, le stesse costituiscono
un servizio strutturale obbligatorio, si ritiene che possano essere
pagate a mezzo dei ruoli di spesa fissa.

Non avvalersi dell´IRC è un tuo diritto: esigi che sia pienamente
rispettato!


ORA ALTERNATIVA ALL´IRC: UN DIRITTO CHE DEVE ESSERE GARANTITO

La C.M. n. 9 del 18 gennaio 1991, sulla base degli accordi di
revisione del Concordato stipulati nel
1984 fra lo Stato italiano e la Santa Sede ed in ottemperanza alla
sentenza della Corte Costituzionale n°13/1991, chiarisce il carattere
pienamente facoltativo della frequenza dell´insegnamento della
religione cattolica nelle scuole pubbliche. In particolare,
stabilisce per coloro che non intendono avvalersi di tale
insegnamento la possibilità di scegliere fra quattro differenti
opzioni: non presenza a scuola durante le ore di IRC, studio
assistito da parte di personale docente, studio non assistito nei
locali dell´istituto scolastico, attività didattiche e formative
(meglio note come "ora alternativa").
Il mondo laico, com´è noto, rifiuta in linea di principio la presenza
all´interno della scuola pubblica di
un insegnamento di natura confessionale (non si tratta infatti di una
storia delle religioni o del fatto
religioso) impartito da docenti scelti dalle autorità ecclesiastiche
ma pagati dallo Stato italiano con i soldi di tutti i contribuenti
(si noti, fra l´altro, che i tagli previsti dai nuovi quadri orari
legati alla riforma "Gelmini" risultano ancor più consistenti se si
tiene conto che in essi viene
conteggiata anche l´ora di religione, la quale, essendo facoltativa,
non dovrebbe essere computata
nell´offerta formativa). Negli ultimi anni il dibattito si è fatto
particolarmente vivace e si è intrecciato
con quello più ampio sull´opportunità di introdurre nella scuola
pubblica un insegnamento del fatto
religioso o di storia delle religioni (e non solo di quella
cattolica) non confessionale e fondato su criteri di scientificità;
e, in caso di risposta affermativa, sull´alternativa fra l´ipotesi
che tale insegnamento venisse diluito all´interno delle discipline
già esistenti e quella che esso fosse una disciplina pienamente
autonoma con tanto di docenti, voto e orario specifici. In effetti,
sono stati praticati alcuni esperimenti miranti a introdurre tale
insegnamento proprio nell´ambito dell´ora alternativa. Si tratta di
tentativi interessanti e da incentivare, ma è importante ribadire che
in nessun caso essi devono portare ad indebolire l´assoluta
facoltatività dell´IRC, ed in particolare l´effettiva possibilità di
scegliere di non avvalersi di alcun insegnamento ad esso alternativo.
Resta il fatto che attualmente il problema principale è quello di
garantire l´effettiva agibilità di tutte
le scelte previste dalla normativa. In particolare, appare
preoccupante il fatto che negli ultimi anni è
diventato sempre più difficile per studenti e famiglie ottenere
l´attivazione dell´ora alternativa; cosa
che appare assai grave sia in linea di principio che per le sue
concrete conseguenze. Innanzitutto,
infatti, l´esigibilità di un diritto garantito dalla legge deve
essere difesa da tutti i laici, anche da coloro che non nutrono
particolari entusiasmi per l´ora alternativa. In secondo luogo,
mentre nelle scuole superiori la non attivazione dell´ora alternativa
si traduce perlopiù nell´uscita da scuola, la situazione è ben
diversa nel caso della scuola primaria e media inferiore. E´ quanto
emerge un´indagine promossa dalla Consulta Torinese per la Laicità
delle istituzioni, dal Comitato Torinese per la Laicità della Scuola,
dal COOGEN, dalla FNISM Torino, dal CIDI Torino, dall´Associazione
"31 ottobre", dalla CUB Scuola e dal Gruppo di Studi Ebraici Torino.
Dai dati raccolti risulta che in molte scuole l´ora alternativa non
viene attivata, anche a fronte di un numero di richieste non sempre
irrilevante. Soprattutto nelle scuole primarie il risultato concreto
è che durante le ore di IRC i bambini non avvalentisi vengono spesso
parcheggiati in altre classi o invitati ad essere presenti come
uditori alle lezioni di religione; quando non sono gli stessi
genitori, timorosi di vedere i propri figli abbandonati a se stessi,
a preferire da ultimo farli frequentare l´IRC.
Il pretesto addotto dai dirigenti scolastici per non attivare l´ora
alternativa è che le scuole, a maggior ragione in questo periodo di
tagli dei finanziamenti, non sarebbero in grado di sostenerne i
costi. In realtà i decreti del Ministero dell´Economia e delle
Finanze stanziano ogni anno cifre cospicue per il pagamento sia dei
docenti di IRC a tempo determinato, sia degli insegnanti di ora
alternativa: in particolare, a livello piemontese sono disponibili
ogni anno circa 38 milioni di euro ripartiti fra i vari ordini di
scuola.  Pertanto non c´è alcun bisogno che i dirigenti scolastici
raschino il fondo di bilanci di istituto sempre più dissestati; è
sufficiente che, a fronte di richieste di ora alternativa, richiedano
i fondi necessari disponibili a livello regionale.
Insomma, la situazione è in grande movimento e va tenuta
costantemente sotto controllo, per evitare abusi e inadempienze e
l´associazionismo laico è pronto a continuare la propria battaglia
anche su questo terreno, al servizio dei diritti degli studenti,
delle famiglie e della laicità della scuola.

Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni

macerata: laboratorio di scrittura creativa


domenica 10 febbraio 2013

fondo di istituto

fonte: flc-cgil

Fondo di istituto 2012/2013: il nostro foglio di calcolo

Sono evidenti gli effetti dell’Intesa MIUR del 30 gennaio 2013 (che non abbiamo firmato) che non riduce la pesantezza del taglio ma lo spalma su due anni scolastici, creando confusione e incertezza.

05/02/2013
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Vai agli allegati
Come calcolare il fondo di istituto (FIS) dopo l’Intesa MIUR del 30 gennaio?
La FLC CGIL mette a disposizione di RSU, dirigenti scolastici e Direttori dei servizi un foglio di calcolo per determinare il FIS 2012/2013.
Si tratta è vero di un calcolo molto semplice, che però mette a nudo la drammaticità dei tagli operati ai piani dell’offerta formativa e ai salari di docenti e ATA. Una colossale opera di impoverimento della scuola dell’autonomia su cui siamo impegnati a consultare la categoria.
Allegati

documento delle associazioni sulla valutazione

LA VALUTAZIONE: UN TEMA CRUCIALE, UN IMPEGNO CONDIVISOLA VALUTAZIONE: UN TEMA CRUCIALE,UN IMPEGNO CONDIVISO
La “Valutazione” è tema strategico nell’ambito delle politiche di sviluppo sociale, educativo ed economico del nostro paese. Un tema che troppo spesso viene agitato in modo strumentale ed ideologico. La valutazione è invece una funzione necessaria per la tenuta di un contesto di carattere nazionale, unitario, per superare la deriva del localismo e il rischio di una connotazione ideologica e di parte delle scuole. E’ altresì necessaria per valorizzare l’autonomia scolastica, per sostenerne la capacità progettuale, l’elaborazione curriculare, l’interazione con il territorio, per sostenerne il progetto formativo. La valutazione è, infine, il processo attraverso il quale ogni soggetto sociale e istituzionale coinvolto nei percorsi formativi assume la propria responsabilità e ne risponde
Spesso si dice “valutazione” per intendere “meritocrazia e premialità”. Una vera e propria “trappola” culturale che comporta l’adesione al presupposto secondo cui la valutazione consiste essenzialmente nell’ordinare in classifiche per individuare e premiare selettivamente i migliori. La validità di tale presupposto non trova conforto alcuno nelle acquisizioni della letteratura scientifica in merito che, semmai, ne dimostrano l'inefficacia e l'inopportunità.
E' inoltre illusorio ritenere che l’introduzione di un apparato tecnico valutativo riesca in modo quasi taumaturgico ad attivare processi di miglioramento del sistema di istruzione e formazione senza bisogno di intervenire sugli altri elementi portanti del sistema stesso, quali la valorizzazione professionale, la riforma degli organi di governo della scuola e, più in generale, la destinazione di qualificanti investimenti finanziari.
La valutazione di sistema è atto politico e ne derivano indicazioni di governo del sistema stesso. Comporta una tipologia di rendicontazione che deve attuarsi attraverso la partecipazione attiva dei diversi soggetti coinvolti, in ogni fase del processo. E' in ogni caso opportuno si connoti per il carattere sperimentale, di ricerca-azione. Non può ridursi a mere e/o singole rilevazioni, bensì deve dispiegarsi in termini di multifattorialità e complessità. Inoltre il supporto tecnico e scientifico ai processi valutativi dev'essere garantito da un ente terzo.
2
VALUTARE PERCHÉ?
PER QUALE SCUOLA?
L'esplicitazione dell'idea di scuola alla quale si intende fare riferimento è premessa ineludibile per la costruzione di un sistema di valutazione nazionale.
Eguaglianza formale e sostanziale, capacità del sistema educativo di coniugare il diritto di tutti allo studio con la qualità dell’istruzione, valorizzazione dei meritevoli come stabilito dalla Costituzione, rappresentano principi inderogabili che tutto il Paese dovrebbe tenere ben presenti per elaborare un’idea condivisa di scuola. Altrimenti, come accade nello schema di regolamento sul sistema nazionale di valutazione proposto dall’attuale Governo, la scuola che si vorrebbe valutare rimane una realtà indeterminata e neutra.
Il Paese ha bisogno di una scuola che sappia esplicitare e comunicare a che cosa serve oggi studiare. Che sia in contatto con gli interessi, le culture, i linguaggi e i modi di apprendere delle giovani generazioni. Che costruisca gli strumenti della cittadinanza attiva, oltre alle competenze necessarie per entrare nel mondo del lavoro e avvii il percorso di disponibilità ad imparare per tutto il corso della vita.
La valutazione è innanzitutto valorizzazione, riconoscimento sociale della funzione della scuola, di cui si avverte l'esigenza per dare forza e sostanza ad un patto intergenerazionale che promuova crescita, coesione sociale, sviluppo democratico.
Le associazioni firmatarie auspicano che si dia vita anche in Italia ad una consultazione nazionale sulla scuola, articolata nei territori, i cui esiti vengano riportati e discussi in Parlamento. Tale consultazione dovrebbe sistematicamente essere riproposta, come struttura portante di una periodica rendicontazione sociale, attraverso la quale, ai diversi livelli, gli esiti dei processi valutativi vengono comunicati ed utilizzati per la formulazione di prospettive e piani di miglioramento.
Pensiamo ad un processo da attivarsi in tempi rapidi, con scadenze certe, attraverso il quale enucleare anche gli elementi portanti dei provvedimenti normativi necessari a istituire un sistema nazionale di valutazione.
3
VALUTARE
CHE COSA?
Abbiamo bisogno di un sistema di valutazione coordinato e articolato su più livelli che tenga insieme in modo articolato e coerente:
a. la verifica costante degli interventi diretti e indiretti dei decisori politici e istituzionali sul sistema educativo;
b. la valutazione di sistema: il contesto, le politiche, i macroprocessi, gli esiti. Precondizione della valutazione di sistema è una chiara definizione dei livelli essenziali di qualità nel sistema nazionale di istruzione e formazione;
c. la valutazione delle scuole come dialettica tra valutazione esterna ed autovalutazione, contesto di dialogo e di condivisione, nei diversi ambiti di responsabilità, delle esperienze e degli interessi dei diversi soggetti che agiscono nella scuola dell’autonomia: non solo operatori della scuola, genitori e studenti, ma anche enti locali e realtà associative del territorio; momento di conoscenza e di progettazione dei correttivi necessari. In tema di valutazione e autovalutazione è necessario, pertanto, prendere in seria considerazione e valorizzare le esperienze in atto o realizzate da ricercatori, Università ed Enti di ricerca. A livello di scuola occorre puntare sul ruolo cruciale della rendicontazione sociale, che assume importanza determinante nell’ambito di un patto pedagogico con gli Enti locali, le famiglie, l’associazionismo, il mondo del lavoro. L'autovalutazione non può tradursi nell' ennesimo adempimento burocratico che grava sulle scuole, né essere appannaggio del solo Dirigente Scolastico;
d. la valutazione formativa degli alunni. Su questo terreno urge una riflessione. Dopo un iniziale apprezzamento di genitori e docenti per il ritorno al voto, ora si registra la delusione delle famiglie, dei docenti, degli alunni. La valutazione formativa è parte essenziale della responsabilità educativa e della professionalità docente. I ragazzi ne hanno diritto e ne avvertono il bisogno. Su questo versante è necessaria una valutazione improntata a narrazione e cooperazione che guardi ai singoli e alle loro specificità ed esigenze in una dimensione coevolutiva. Le prove nazionali inserite negli esami conclusivi pesano in modo distorsivo ed esagerato su quelli che sono gli esiti di un percorso individuale che deve invece poter essere adeguatamente riconosciuto e valorizzato secondo l’idea di una valutazione che precede, accompagna e conclude un determinato percorso didattico-formativo;
4
e. La valutazione/valorizzazione degli operatori della scuola – docenti, personale ATA e dirigenti scolastici – dovrà essere necessariamente contemplata in un quadro di valorizzazione della professionalità che trova nel CCNL l'unico luogo possibile di definizione.
VALUTARE COME?
Abbiamo bisogno di un sistema di valutazione condiviso, sostenuto da un patto tra tutti i soggetti coinvolti. E’ questo un elemento dal forte valore politico. L'aura di neutralità tecnica da cui è avvolto il dibattito su questo tema opacizza strumentalmente la vera natura di qualsiasi processo valutativo: atto esplicitamente politico, che non va negato né nascosto. Al contrario, è necessario esplicitare i valori e gli obiettivi che indirizzano la valutazione, la cui definizione deve essere pubblica e democratica, ed è necessaria un'assunzione di responsabilità politica da parte dei soggetti deputati a tale ruolo. Infatti, il senso e l’efficacia di un sistema di valutazione si fondano sul coinvolgimento attivo di tutti gli operatori, sulla valorizzazione e sull’esercizio responsabile del loro ruolo sociale e professionale.
Ogni processo di valutazione, ai diversi livelli (quindi con strumenti diversificati ad hoc), deve essere accompagnato dalla disponibilità e dall'impegno (anche economico) a realizzare interventi di promozione della qualità e orientati al miglioramento.
Va abbandonata la prassi di considerare le prove Invalsi come l’unico strumento per procedere alla valutazione tout court del sistema scolastico, degli istituti, dei docenti. Le prove Invalsi standardizzate possono rappresentare un utile strumento per una rilevazione nazionale degli apprendimenti. Non c’ è, però, alcun bisogno di svolgere questo tipo di rilevazioni su base censuaria, come stanno a dimostrare le rilevazioni internazionali. Inoltre, una valutazione di sistema non può concentrarsi solo su una rilevazione degli "output" del sistema di istruzione, ma deve occuparsi anche dei processi che determinano quegli esiti.
CHI VALUTA?
Auspichiamo, innanzitutto, che sia il Parlamento a definire in modo preciso e articolato le finalità e le strategie della valutazione di sistema. Poiché si tratta di esplicitare i macro
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obiettivi verso cui deve tendere il sistema di istruzione, invero già individuati dalla nostra Costituzione; di definirne le diverse dimensioni; di individuare gli indicatori che rappresentano tali dimensioni. Mentre le "variabili", ovvero i descrittori empirici dei concetti, sono prevalentemente oggetto di valutazione tecnico-scientifica, le scelte di concetti, dimensioni e indicatori rappresentano fasi delicate la cui responsabilità deve essere politica.
A partire dal primario ruolo del Parlamento, auspichiamo il coinvolgimento attivo di tutte le istituzioni e degli altri soggetti che interagiscono con il sistema dell'istruzione e della formazione, ciascuno dei quali può contribuire ai processi di miglioramento.
A presiedere i processi valutativi, a validarne tecnicamente e scientificamente gli esiti, a supportarli anche fornendo gli strumenti adeguati, a declinare gli indicatori in descrittori, dovrà essere un Ente caratterizzato innanzitutto da terzietà.
LA PROPOSTA
Le associazioni firmatarie offrono questo documento a tutti i soggetti interessati a condividere e sottoscrivere un impegno per promuovere nel nostro Paese un sistema di valutazione funzionale alla piena attuazione del diritto all'istruzione, che responsabilizzi i livelli istituzionali e i decisori politici, che attivi il coinvolgimento di tutti i soggetti che interagiscono con il sistema, che supporti le scuole nei processi di miglioramento.
Le associazioni proponenti
A.I.M.C. – C.I.D.I. – F.N.I.S.M. - LEGAMBIENTE Scuola e Formazione - M.C.E. –
Proteo Fare Sapere - Per la Scuola della Repubblica - C.G.D. – U.D.S.- Rete Studenti Medi
Roma 5 febbraio 2013

RECANATI: ESPERIENZA ALLA SCUOLA MEDIA

fonte: cronache maceratesi
RECANATI: COOPERATTIVI. esperienza alla scuola media
progetto "crescere nella cooperazione"

CIVITANOVA: INIZIATIVA SULL'INTEGRAZIONE FRA SUONI E SAPORI

fonte: cronache maceratesi

CIVITANOVA: INIZIATIVA SULL'INTEGRAZIONE FRA SUONI E SAPORI

CLASSI POLLAIO

FONTE: DON ORIONE

Boom di ragazzi sui banchi, scatta l'allarme per le classi pollaio

L’incremento della popolazione scolastica si sente fortemente alle elementari: più 21.049. Ma anche alle superiori: più 13.384. Il boom viene frenato dal dato delle scuole medie, che il prossimo settembre vedrà una flessione degli iscritti pari a 7.727. È un dato rilevante, che accelera in realtà un percorso di crescita che dura da cinque anni di fila, secondo le rilevazioni del Miur. Dal 2008 al 2013 il numero degli iscritti è aumentato di 56.486 studenti (+0,8% complessivo) e sul quinquennio resta molto forte l’accelerazione alle elementari (59.362 in più, +3,7%), una crescita più contenuta alle medie (10.079, +0,4%) mentre il calo qui si vede invece alle scuole superiori: 12.955 alunni in meno (-0,5%).
I demografi, ma anche i dirigenti dell’Istruzione di lungo corso, imputano questa generale crescita scolastica alla forte immigrazione straniera pre-crisi, ovvero fino al 2008. D’altro canto l’ultimo censimento ha registrato 59 milioni e 433 mila residenti in Italia (la cifra più alta di sempre) a fronte di 250 mila italiani in meno. Il dato generale è attribuibile all’onda degli stranieri, che oggi superano i quattro milioni. E così accade nella scuola, che sempre più riceve figli di extracomunitari.
Il paese a due facce vede — come ha sottolineato il sito di Tuttoscuola —il crollo della scolarità al Sud e un aumento potente degli iscritti negli istituti lombardi (65 mila alunni in più negli ultimi cinque anni) e in Emilia Romagna (+10 per cento). Nell’Italia meridionale, isole comprese, nel quinquennio si sono registrati 148 mila alunni in meno. La flessione demografica di quell’area, tutt’altro che nuova, è costante e gli esperti prevedono che continuerà ancora per molto tempo, senza risparmiare nessuna regione. Basilicata, Calabria ma anche il Molise hanno picchi negativi tra il 7% e il 9%. Negli istituti superiori di alcune aree del Sud la decrescita formativa ha superato il 10%, e questo è un grave sintomo di dispersione scolastica. Fra l’altro, il ministero è in grave disagio perché al prosciugamento dei ragazzi iscritti non corrisponde una fuoriuscita di insegnanti. Nelle classi calabresi e molisane c’è un insegnante ogni 17 ragazzi, in Emilia Romagna uno ogni 21.
Nello stesso periodo considerato, i cinque anni che arrivano al 2013, in tutto il Centro-nord si è registrato un deciso incremento: 88 mila scolari in più nel Nord Ovest, 76 mila nel Nord Est, 41 mila in più nelle regioni centrali. Più che un’immigrazione scolastica interna, meridionali che salgono con le famiglie nel produttivo Settentrione, anche qui siamo in presenza di uno spostamento di immigrati verso il Nord Italia dopo il primo approdo: i bambini-ragazzi in età scolare seguono, ovviamente, i loro genitori in cerca di un lavoro.
Con la crescita scolastica dell’Italia centro-settentrionale prossima ventura, sono inevitabili e prevedibili gli effetti sulle classi da chiudere o aprire, le strutture scolastiche da ridurre o ampliare (gli accorpamenti). Si segnalano in crescita le classi pollaio, quelle dove si stipano oltre trenta alunni. Nel 2010 le classi “over 30” in Italia erano 2.108 (su 350 mila), pari allo 0,6%, dato in salita. Le proiezioni sulla stagione 2013-2014 fanno immaginare il superamento della soglia dell’un per cento con le classi pollaio stimate intorno a quattromila. Fra l’altro, una sentenza del Consiglio di Stato e tre del Tar del Molise hanno fissato il tetto, oltre il quale una classe diventa un pollaio, a quota 25. Fissando lo spazio per alunno in 1,96 metri quadrati a testa. Il Miur ha già fatto sapere che, per i vincoli posti dalla legge, il prossimo anno non potrà esserci un aumento dei posti (e quindi delle classi). Gli ultimi record della scuola italiana —42 alunni allo scientifico D’Assisi di Roma, 37 alunni di cui due disabili in un istituto tecnico di Colleferro, nell’hinterland della capitale, 41 in un tecnico di Fucecchio — saranno probabilmente infranti.

(la Repubblica, 5 febbraio 2013)