venerdì 31 gennaio 2014

adozione INTERNAZIONALE e scuola: IN CLASSE UN ANNO DOPO SE SI è APPENA ARRIVATI IN ITALIA

fonte: AIBI

In classe un anno dopo se si è appena arrivati in Italia

SCUOLAFavorire l’inserimento scolastico dei bambini adottati, tenendo conto del vissuto e delle specificità di questi soggetti. Sarà questo lo scopo della circolare ministeriale attesa in tempi brevi, come annunciato nel corso del convegno sul rapporto tra adozione e scuola che si è tenuto il 23 gennaio a Firenze. “La circolare – ha detto il neo direttore dell’Ufficio scolastico regionale della Toscana Giovanni Bodaconsentirà di fornire uno strumento normativo necessario a rispondere a un nodo cruciale riguardante l’inserimento scolastico di questi alunni”: la permanenza per almeno un anno nella scuola dell’infanzia anche nei casi in cui il bambino adottato arrivi in Italia avendo già compiuto i 6 anni.
La necessità di un tale provvedimento nasce dalla consapevolezza delle difficoltà che un minore appena giunto nel nostro Paese e con un passato spesso traumatico fatto di miseria e di abbandono può incontrare al momento dell’ingresso nel mondo della scuola. I dati forniti dalla Commissione per le adozioni internazionali, aggiornati al 21 gennaio, evidenziano tra l’altro come gran parte degli arrivi di bambini adottati avvenga ad anno scolastico iniziato o a iscrizioni chiuse. Relativamente al 2013 i mesi con il maggior numero di ingressi sono stati quelli di dicembre (299) e marzo (258), ma anche gennaio ha visto un notevole incremento di arrivi (+16% rispetto allo stesso mese del 2012). Anche l’età media dei piccoli adottati è molto vicina a quella dell’inserimento scolastico: tra i 2.835 bambini adottati in Italia nel 2013 l’età media è stata di 5,5 anni e nel 2012 fu di 5,9.
Tutti elementi di criticità che si aggiungono  a quelli già derivanti dal vissuto personale di ogni singolo adottato. “Dovrebbe essere prevista la possibilità di ritardare l’ingresso in primaria – ha spiegato il Coordinamento delle associazioni familiari adottive e affidatariein modo da permettere al bambino di recuperare ritardi psicomotori e cognitivi conseguenti alla sua storia pregressa”. Attualmente la normativa vigente prevede invece che i bambini arrivati in Italia a 6 anni vengano introdotti subito alla frequenza del primo anno di scuola primaria, mentre quelli giunti a 5 anni vadano in prima già dall’anno scolastico successivo, che per molti vuol dire pochi mesi dopo il loro arrivo.
Tuttavia, come ricorda il Care, nel 2013 il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, riferendosi a un caso specifico di un bambino di Treviso, ha ammesso che “in casi eccezionali e debitamente documentati” ci possa essere una deroga di un anno all’iscrizione “alla classe di scuola primaria, al fine di consentire la piena inclusione scolastica del minore”.
In attesa della circolare, il Miur ha predisposto un comitato tecnico scientifico chiamato a elaborare le linee guida nazionali con le soluzioni organizzative e amministrative per l’accoglienza e la piena integrazione socioculturale degli studenti adottati.

Fonte: Italia Oggi (28/01/2014, pag. 35)

MACERATA: greenbus, organizzato per la scuola dal comune

RIPARTITO IL SERVIZIO GRATUITO DI ACCOMPAGNAMENTO A SCUOLA DEI BAMBINI DELLE PRIMARIE

mercoledì 29 gennaio 2014

«Cl@sse 2.0? No, grazie». Gli scettici del digitale

fonte: corriere.it

«Cl@sse 2.0? No, grazie». Gli scettici del digitale

La rivolta dei genitori dell’elementare Iqbal Masih di Roma. Lo studioso: «Il tablet non è un coltellino svizzero che può far tutto»

Hanno avuto paura di «andare a sbattere», come quando si guida la macchina senza patente. Così, alla proposta di trasformarsi in «Cl@sse 2.0» - tutta tablet e tecnologia - la IB dell’elementare Iqbal Masih di Roma, ha detto no. «No» per le modalità («una decisione comunicata dalla scuola a inizio anno, senza che i genitori venissero prima informati e consultati», spiega Mauro Giordani, un papà che guida il gruppo di «dissidenti» tecnologici). Ma no, soprattutto, «per un progetto i cui effetti non sono noti né a noi, né alle insegnanti, né al ministero proponente». Troppa didattica digitale, sono convinti i genitori, può essere dannosa. Lo hanno messo per iscritto, illustrando i loro timori con citazioni di articoli, studi autorevoli e testimonianze di studenti e insegnanti che mettono in luce i rischi: dispersività, dilatazione dei tempi di lavoro, perdita di attenzione e di parte dei contenuti didattici.
DEMENZA E DISTRAZIONE - L’utilizzo precoce dei media digitali nei bambini - hanno sostenuto, rivolgendosi al Consiglio d’Istituto - avrebbe «conseguenze negative sul corretto sviluppo di abilità cognitive quali attenzione e memoria, sui processi emotivi, sull’autocontrollo, sulla socializzazione e l’identità personale. In Corea del Sud han coniato la definizione “demenza digitale”, per mettere in guardia contro la piaga della dipendenza da Internet. E a Los Angeles, dopo aver speso miliardi di dollari per informatizzare le scuole, stanno ora facendo marcia indietro perché si sono accorti che tablet e internet sono “armi di distrazione di massa”». Hanno chiesto dunque di sospendere il progetto e, in alternativa, di attrezzare, con i 15mila euro in dotazione, un’aula di informatica multimediale (anche per evitare il bombardamento del wi-fi in classe) o di acquistare strumenti didattici innovativi per tutta la scuola.
«PRECAUZIONE» - La scuola italiana è sempre più povera, sostengono i genitori, ma decine di milioni di euro vengono spesi per la «migrazione» digitale: criticano insomma l’approccio del meno insegnanti, ma più tecnologia. E perché non li si potesse tacciare di «oscurantismo», hanno organizzato dibattiti aperti, per approfondire e mettere a confronto tecnoentusiasti e dubbiosi. Al primo appuntamento, qualche giorno fa, Roberto Casati, filosofo e direttore di Ricerca al Cnrs, a Parigi e autore del libro «Contro il colonialismo digitale», ha appoggiato le tesi dei genitori della classe romana, sul rapporto tra didattica e tecnologia, illustrando e motivando il proprio pensiero con la necessità di «esercitare un sano principio di precauzione».
LA CURVA DEL BENEFICIO - «Non è ancora chiaro - sostiene il ricercatore - il contributo pedagogico che le nuove tecnologie possono dare». Ha citato recenti ricerche basate su un’analisi dei risultati Ocse-Pisa 2009, in base alle quali l’introduzione della tecnologia a scuola è vantaggiosa se impartita a piccole dosi, ma diventerebbe controproducente con l’aumentare del tempo dedicatole. «Una delle ragioni più probabili risiede nel fatto che le tecnologie di oggi sono molto distraenti e abbassano la soglia dell’attenzione», spiega. Non vuole essere definito un «luddista», Casati («sono stato tra i primi a usare un tablet», ci tiene a dire). «Non sono contrario alle tecnologia nella scuola, ma sono contro la logica di sostituzione che oggi sembra prevalere - dice -. Il mio è un invito alla prudenza: strumenti low tech devono continuare a coesistere con i nuovi, valutando a che cosa possano meglio servire gli uni e gli altri». Per esempio, spiega, l’impatto è sicuramente positivo per bambini con sintomi di discalculia o di disprassia, che con un supporto tecnologico riescono ad esprimersi in maniera più completa. «Ma se la pedagogia deve essere innovata, si parta prima da lì, e solo dopo dagli strumenti. Invece vedo prevalere la logica di “dare un tablet a ogni studente, poi si vedrà”. Sbagliato, dice, pensare che il tablet sia un po’ come «un coltellino svizzero, uno strumento che permette di fare tutto».
«NESSUN ABUSO» - «Ma l’approccio della nostra scuola è quello di sperimentare e poi verificare, attraverso il monitoraggio previsto dal Miur». Nessun abuso, assicura la dirigente della scuola, Stefania Pasqualoni. E, soprattutto, nessuna «abbuffata» digitale: «Non vogliamo crescere dei piccoli robot. Il progetto prevede che solo tre ore delle 40 settimanali vengano dedicate all’uso delle tecnologie. Quasi lo stesso tempo previsto dalle insegnanti che le usano in laboratorio di informatica». Ma mentre il Piano Nazionale Scuola Digitale assorbe decine di milioni di euro per rendere tecnologica la didattica (solo per il Lazio sono stati stanziati 4 milioni di euro nel 2013) e modificare l’ambiente di apprendimento, il fronte del dubbio si allarga. Il timore è che si voglia accelerare, per pura propaganda commerciale, un cambiamento non abbastanza ponderato.
«ALTRI RISCHI» - Altri sono i rischi, avverte però la preside Pasqualoni: «Forse fuori dalla scuola i ragazzini le tecnologie le usano anche troppo e magari nel modo sbagliato. Educarli a un utilizzo consapevole, insegnargli a utilizzare Word, Excel o Power Point, o come ci si difende da intrusione della privacy sarebbe una battaglia più importante di questo confronto di retroguardia».
28 gennaio 2014

macerata: sezione montessori

campi di concentramento nelle marche

fonte:"con in faccia un po' di sole!



I campi di concentramento di Servigliano e Monte Urano

Campi Concentramento Fermano
“Nella pratica quotidiana dei campi di sterminio trovano la loro realizzazione l’odio e il disprezzo diffusi dalla propaganda nazista. Qui non c’era solo la morte, ma una folla di dettagli maniaci e simbolici, tutti tesi a dimostrare e confermare che gli ebrei, e gli zingari, e gli slavi, sono bestiame, strame, immondezza. Si ricordi il tatuaggio […] che imponeva agli uomini il marchio che si usa per i buoi; il viaggio in carri bestiame, mai aperti, in modo da costringere i deportati a giacere per giorni nelle proprie lordure; il numero di matricola in sostituzione del nome; […] l’empio sfruttamento dei cadaveri, trattati come una qualsiasi anonima materia prima, da cui si ricavavano l’oro dai denti, i capelli come materiale tessile, le ceneri come fertilizzanti agricoli; gli uomini e le donne degradati a cavie, su cui sperimentare medicinali per poi sopprimerli”
Sono le parole dure e agghiaccianti di Primo Levi, chimico italiano tristemente noto per le barbarie subite al campo di concentramento di Auschwitz. Proprio non molto tempo fa ho letto, finalmente, il suo libro “Se questo è un uomo”. Già sento apostrofarmi: “ma possibile che ancora non lo avevi letto?”. Mancanza grave, lo so. Chiedo venia, ma ai tempi delle scuole dell’obbligo non è che fossi molto appassionato di lettura. Solo dopo aver finito le scuole superiori mi sono messo a leggere cose più impegnate e alcune di queste riguardavano l’eccidio degli ebrei.
Leggere il libro di Levi è stata come una lezione di vita. Ciò di cui parla sembra così distante, così irrazionale che non riesci a concepire siano successe giusto 60 anni fa. E’ come se le collocassi in un’altra epoca storica, molto lontana. Invece no. E’ tutto reale e di un passato molto prossimo a noi. Lo si può ancora percepire nei racconti dei nostri nonni. La guerra ha fatto paura e lo fa ancora, a chi l’ha vissuta.
Anche se siamo in una zona periferica dai centri nevralgici dello Stato, i nostri territori sono stati coinvolti da scontri più o meno sanguinosi (come, ad esempio, l’eccidio di Montalto), e dalle pagine più nere della storia d’Italia.
Campi Concentramento Fermano
Qualche anno fa, andando a documentarmi su questo periodo storico, scoprì, con mia grande sorpresa, che anche nel Fermano erano presenti dei campi di internamento e concentramento.
Ce n’erano due: il campo di prigionia PG70 di Monte Urano e il campo di prigionia PG59 di Servigliano (se vuoi conoscere la storia della città di Servigliano leggi l’altro articolo: “Servigliano: storia di due pontificati”).
Campi Concentramento Fermano
Il primo in realtà era collocato nella frazione di Girola di Fermo (Fermo) ed è stato successivamente riconvertito in una conceria, la SACOMAR. Oggi, dismessa anche questa, il sito è in abbandono, in attesa della sua destinazione finale.
Il secondo campo di prigionia era situato davanti all’ex stazione ferroviaria di Servigliano. Oggi è presente in quella stessa area il “Parco della Pace” fortemente voluto dall’amministrazione comunale a ricordo di ciò che era stato e, nell’ex stazione ferroviaria, è stato collocato il “Museo della Memoria” realizzato per ripercorrere le vicende avvenute in quei terribili giorni.
Campi Concentramento Fermano
Per il campo di prigionia di Fermo (o Monte Urano come lo identificano le carte), non si sa molto. Sembra sia stato inaugurato nell’Agosto del 1942 e al suo interno furono internati prigionieri di diverse nazionalità fino alla massima capacità di 8000 presenze. Questo campo, come del resto anche quello di Servigliano, era destinato al concentramento e smistamento dei malcapitati. I prigionieri stavano qui per un certo periodo e poi erano inviati ai lager tedeschi, previo passaggio obbligato per i campi di raccolta di Suzzarra (Mantova) o Fossoli (Modena).
Campi Concentramento Fermano
Proprio per questo motivo, molti degli internati cercavano la fuga nelle campagne marchigiane, prima di essere trasferiti altrove, sperando di rifugiarsi in qualche casolare grazie alla benevolenza degli abitanti del luogo. E’ quello che accadde anche a Ken de Souza aviatore inglese che arrivò al campo di Fermo sul finire del 1942: “su alcuni camion attraversammo campagne meravigliose dove vive gente che nutre grande amore per i sofferenti”. Qui sotto c’è il video che racconta la sua storia (il racconto parte dal minuto 22.20)


La storia del campo di prigionia di Servigliano, invece, è differente e in un certo senso più complessa.
Già durante la prima guerra mondiale era necessità dello Stato Italiano trovare delle aree idonee per la costruzione di campi aventi la funzione di ospitare prigionieri di guerra. Il comando di Corpo d’Armata di Ancona selezionò le aree idonee e tra queste fu scelta anche Servigliano. Per quale motivo?
Perché i luoghi da adibirsi a campi dovevano avere, come requisiti l’”essere poste fuori dalle zone di guerra, in terreno pianeggiante, in plaga salubre e ben fornita d’acqua, lontana dai centri industriali ed infine facilmente sorvegliabile”. Inoltre è stato notato che a Servigliano “non vi sono addensamenti di masse operaie e prospera invece l’artigianato: non si ha traccia di quelle agitazioni proletarie che altrove, sotto la larva di miglioramenti economici, nascondono sovente propositi di sovvertimento politico e sociale”.
Campi Concentramento Fermano
Quindi nell’autunno del 1915 si iniziò la costruzione. Furono occupati 3 ettari di terreno e costruite 32 baracche e ognuna di queste poteva contenere 125 prigionieri in 300 mq di superficie. Inoltre tutto il perimetro del campo fu recintato da un muro alto 3 metri sopra al quale fu posto un filo spinato.
I primi prigionieri confluirono al campo nell’agosto 1916 e furono rimpatriati definitivamente nel dicembre 1919. In quel lasso 22 prigionieri morirono per varie malattie.
Alla fine della guerra, mentre il campo era in stato di abbandono, l’amministrazione comunale di Servigliano fece più volte richiesta al Ministero della Guerra per poter utilizzare e sfruttare in maniera più produttiva l’area. Ma le risposte furono sempre negative.
Campi Concentramento Fermano
Con l’avvento del fascismo, si capì, di nuovo, che l’area sarebbe stata ideale per un campo di concentramento. Così si iniziò a rispristinare le baracche e le mura, ma la zona era stata già in parte compromessa. Infatti, nel 1935, una parte del campo era stato destinato alla realizzazione di un campo sportivo voluto dal dopolavoro comunale, ente ricreativo creato sempre dal fascismo. Quindi, la massima capacità del campo era attestata sulle 2000 unità.
Campi Concentramento Fermano
Il campo di concentramento e smistamento (PG59) fu ufficialmente riaperto il 5 Gennaio 1941. I prigionieri iniziarono ad arrivare dal febbraio 1941 per poi essere trasferiti, durante l’anno, in altri campi d’Italia. Nel gennaio 1942 il campo rimase vuoto, ma dal mese successivo in poi arrivarono continuamente i prigionieri alleati fino a raggiungere la massima capacità nel maggio del 1942.
Fino al 6 settembre del 1943 nell’area si registrò un continuo via vai di prigionieri: chi spediti altrove, chi appena arrivati, chi fermi lì da più di un anno. Ma il 6 settembre tutto cambiò. E’ il giorno dell’armistizio del Generale Badoglio il quale dichiara che “ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo”. Questo momento segna anche la storia del campo di prigionia PG59 di Servigliano. Infatti la sera del 14 settembre, 6 giorni dopo l’armistizio, tutti i prigionieri internati fuggirono in massa. Nella situazione confusa di quella sera alcuni detenuti riuscirono a fare un buco nel muro del campo e iniziarono a fuggire. Alla fine tutti ce la fecero a scappare anche grazie alla prontezza del capitano medico Dereck Millar che si prese la responsabilità dell’evacuazione.
Campi Concentramento Fermano
Dopo la fuga, anche delle guardie, il campo rimase completamente abbandonato e nei giorni successivi fu ripetutamente saccheggiato sia dagli ex prigionieri che dalla popolazione locale che si trovava in seria difficoltà economica.
Ormai la guerra sembrava terminata. Dopo l’armistizio si pensava che la battaglia sarebbe finita presto. Invece proprio in quel momento cominciò la fase più cruenta della lotta. La confusione era grande: non si sapeva bene contro chi combattere. Stavamo con gli Alleati o con le Potenze dell’Asse? In questo marasma il comando tedesco locale decise di utilizzare l’area di Servigliano destinata finora ad ospitare i prigionieri come campo per “l’internamento degli ebrei sia italiani che stranieri”: era il 7 ottobre 1943. L’ordine era stato chiaro: “tutti gli ebrei internati e liberi, cittadini italiani e stranieri, comunque residenti o soggiornanti in questa provincia, devono essere al più presto tratti in arresto e internati nel campo di concentramento di Servigliano”. Iniziarono, perciò, a confluire tutti gli ebrei rastrellati nella provincia di Ascoli Piceno: nel marzo del 1944 erano presenti 61 ebrei più altri 245 prigionieri di guerra. La vita all’interno del campo era pessima, come testimonia anche Carla Viterbo Bassani una detenuta a Servigliano. “[…] il vitto era davvero cosa penosa: si trattava di fagioli e piselli marci che conservavano nei sacchi. Qualche volta, tenuto conto della scarsità di cibo, autorizzavano qualcuno di noi ad andare per le case ad elemosinare un pezzo di pane, sempre accompagnato dalle guardie. […] Era penoso chiedere da mangiare ma a volte qualche cosa si riusciva a ricevere.”
Le giornate procedevano così, finché il 3 maggio 1944 alle 22.30 un aereo alleato bombardò il campo creando una breccia nel muro di cinta e distruggendo anche due baracche. Perse la vita un’internata e gli altri scapparono nelle campagne approfittando del momento. I militari addetti alla sorveglianza cominciarono subito le ricerche dei fuggitivi e 31 furono catturati mentre 19 riuscirono a dileguarsi in tempo (come Carla Viterbo Bassani). I catturati furono deportati la sera stessa a Fossoli e il 16 maggio, insieme ad altri prigionieri ebrei di altre località, furono inviati ad Auschwitz. Solo 3 sopravvissero alle infamie che si perpetrarono nei lager tedeschi.
Campi Concentramento Fermano
Alla fine della guerra, dal giugno del 1945, al 1955, l’area, dopo i lavori di risistemazione delle strutture interne, divenne un “Centro Raccolta Profughi”. Infatti nell’Europa le dittature non erano finite (ad esempio c’era Tito in Iugoslavia) e c’era bisogno di accogliere in qualche maniera i fuggiaschi dei loro paesi.
Dalla fine del 1955 al 1977 il campo rimase abbandonato fino ad essere convertito nel centro polisportivo “Parco della Pace” tutt’ora presente.
Per approfondire queste vicende vi consiglio di visitare la Casa della Memoria all’ex stazione di Servigliano.
Campi Concentramento Fermano

Info:
Casa della Memoria, via E. Fermi, Servigliano (FM). Tel.: 0734.750583. Orari di apertura: dal lunedì al venerdì: 9.00 - 14.00; sabato: 15.00 - 20.00.

Fonti:
“Se questo è un uomo” | Primo Levi | Einaudi | Torino | 1958.
“Il Campo di Servigliano 1915 – 1955. La memoria di un luogo che testimonia le tragedie del Novecento” | Associazione Casa della Memoria Servigliano | 2005.
http://www.raistoria.rai.it/

come parlare del tema della guerra?

fonte: combifem
Come parlare del tema della guerra In classe come altrove la testimonianza è spesso il modo migliore per affrontare temi difficili, dolorosi ma ineludibili. Mio padre è sopravvissuto a un campo di concentramento nazista durante la Seconda Guerra Mondiale.

Luciana Bertinato da La vita scolastica

28.01.2014: L’esperienza scolastica mi insegna che il modo migliore per affrontare con i bambini il tema della guerra è raccontare loro una storia a partire da una testimonianza. A me accade di narrare quella di mio padre, sopravvissuto a un campo di concentramento nazista durante il secondo conflitto mondiale, e del dono che la vita mi ha riservato nel ritrovare, mezzo secolo dopo, la persona che lo salvò. “In tutte le cose ", scriveva Simone Weil "solo quel che viene dal di fuori, gratuitamente, a sorpresa, come un dono della sorte, senza che l’abbiamo cercato, è gioia pura”.

Una lettera

Uno squillo di telefono e la vita ti sorprende ancora una volta, all’improvviso. “Sono don Luigi Fraccari. Rovistando tra i miei documenti ho ritrovato una lettera scritta nel ‘45 da Giovanni Bertinato. È trascorso tanto tempo, ma vorrei avere sue notizie. L’ho fatto uscire io da quell’inferno... è riuscito poi a tornare a casa con quel treno?”. La voce è velata d’emozione, ma chiara e così puntuale nei dettagli del racconto da non lasciare adito ad incertezza alcuna. È una fredda mattina d’inverno del 1995, pochi giorni prima di Natale, quando mia madre risponde al telefono. Smarrita, riannoda a fatica lontani fili di una storia d’amore che riaffiora dalla notte del tempo. Chiede con insistenza, ascolta e racconta a lungo lasciandosi catturare da ricordi mai sopiti.
"Fare" e tramandare speranza
Luckenwalde, 8 marzo 1945: dal campo di concentramento nei dintorni di Berlino un uomo chiede aiuto. Ha fame, è malato e da mesi lotta disperatamente per uscire dalla baracca di isolamento in cui è stato rinchiuso. Aggrappandosi alla vita che si sta spegnendo, a poco a poco, affida a un amico una lettera, scritta a matita su carta da pane, con le seguenti parole: “È già un mese che sto lottando per essere ricoverato in ospedale per le cure, dopo aver cambiato tre medici che hanno cercato soltanto di farmi del male. Solo oggi ho la conferma che il polmone destro comincia a marcire, quindi sono inabile al lavoro. Vi chiederei di fare qualcosa in merito al mio rimpatrio dato che vi trovate all’ambasciata italiana…”. Fraccari è là dove l’uomo chiama e conosce il coraggio e la solidarietà. Per lui, e per moltissime altre vittime dell’orrore, organizza la speranza e allora la salvezza diventa un treno, uno degli ultimi in partenza ai bordi di quella tragedia immane.

Mio padre non conobbe mai il volto della persona che gli salvò la vita. A distanza di cinquant’ anni è toccato a noi ricevere questo dono. Il resto è un appuntamento dentro un pomeriggio inzuppato di pioggia, la trepida attesa dell’incontro e, infine, un abbraccio privo di parole. Perché la gratitudine non ha confini, ora che abbiamo tra le mani un sottile foglio di carta, solcato da una calligrafia che per diciannove anni con gioia ci è stata familiare.

mercoledì 22 gennaio 2014

SCUOLA: VIAGGIO DELLA MEMORIA

Vivalascuola. Viaggio della memoria



Presentiamo i racconti del “viaggio della memoria” a Mauthausen, Gusen e Hartheim che gli studenti della 5A del Liceo Scientifico Tecnologico dell’IIS “Giovanni Giorgi” di Milano hanno compiuto tra il 29 e il 31 gennaio 2013, introdotti da una riflessione di Stefano Levi Della Torre. Un grazie di cuore a ragazze e ragazzi e a tutti, uno per uno, l’augurio di rispettare, quando saranno adulti, “i sogni della giovinezza” (F. Schiller, Don Carlos).
Il coraggio di ricordare
di Stefano Levi Della Torre
L’impegno di tanti studenti e docenti nell’affrontare la tragedia dei campi di concentramento e di sterminio nel cuore dell’Europa è quasi eroico, non solo per l’argomento ma anche per la condizione in cui è stata ridotta la scuola italiana, la cui qualità si affida sempre più alla buona volontà di chi vi partecipa.
La scuola è il principale luogo di formazione e oggi più che mai di integrazione di mentalità e culture diverse, eppure la professione di insegnante, così umiliata e miseramente retribuita, è costretta a farsi missione, se vuole mantenere la sua funzione formativa e di animazione degli interessi e delle curiosità culturali. Di questo sforzo sono testimonianza gli scritti che seguono, resoconti degli studenti che hanno accolto la proposta del “viaggio della memoria” a Mauthausen e Gusen, sollecitati e preparati dai loro insegnanti: “volontariato” degli uni e degli altri.
Sono scritti di una certa qualità, in cui si dà atto di quanto sia importante vistare i luoghi per dare corpo all’immaginazione dell’inimmaginabile: la deportazione a scala continentale verso le fabbriche della morte, la razionalità tecnologica e amministrativa dell’annientamento, la razionalità scientifica della riduzione a cavie degli esseri umani, la re-introduzione della schiavitù di massa in Europa, lo sterminio degli oppositori e dei dissidenti, il genocidio degli ebrei, dei Rom e dei Sinti, dove il genocidio si caratterizza per la strage sistematica dei bambini come distruzione anche del futuro di un gruppo umano…
Gli scritti riflettono lo stupore angoscioso, da un lato per la deformazione indotta nei carnefici dall’odio ideologico, dall’altro per l’indifferenza della popolazione che ha convissuto con la tragedia, nelle sue stesse vicinanze. Se ne può dedurre quanto l’”inimmaginabile” possa diventare un alibi per chi non vuol sapere, per conformismo o consenso al regime, o per paura di esso.
Che cosa oggi occorre avere il coraggio di sapere? Certo quel che è accaduto allora. Ma anche quello che accade oggi, perché l’odio ideologico, etnico e razzista non si sono fermati nel mondo, e così la schiavitù, lo sfruttamento e l’oppressione economica e politica, la tragedia dei profughi, della guerra e della strage. Ciò che non doveva più succedere succede.
La tragedia europea del XX secolo ci insegna quanto la civiltà covi sempre dentro di sé un’immane possibilità di barbarie; e quanto l’indifferenza o il desiderio di tranquillità privata ci rende difficile percepirne i sintomi.
Importante è lo sforzo, diffuso in questi scritti, di valersi dei luoghi per immedesimarsi per quanto è possibile nella condizione delle vittime, nel loro freddo e fatica e fame e umiliazione nell’attesa di una morte certa. Ma anche la nostra indignazione di oggi per ciò che accaduto può essere un rifugio della coscienza. Ci compiacciamo di sentirci diversi dai carnefici, e non ci è difficile solidarizzare con le vittime di allora, (più arduo è solidarizzare con quelle di oggi, perché non possono non disturbare le nostre esistenze).
Ma forse la domanda centrale è questa: che cosa può esserci in noi che somiglia ai carnefici, o almeno ai consenzienti o agli indifferenti che hanno favorito la loro azione? Dichiarare “incomprensibili” tali comportamenti ci tranquillizza, mentre sono proprio le loro logiche, storiche e personali, che occorre indagare, se vogliamo combatterle a cominciare da noi stessi.
La memoria che ci tocca coltivare è una memoria non più sovraccarica di risposte già date, bensì interrogativa, memoria dei problemi che le tragedie trascorse e presenti ci pongono dinanzi nella loro attualità: quali interessi, quali forme mentali, e passività e indifferenza minacciano di riprodurre, ora, situazioni in cui vite e diritti umani possono venire sacrificati? E che cosa fare per prevenire o combattere queste tendenze?
Tra le indicazioni che questa memoria ci affida per attrezzarci ad affrontare le crisi e a uscirne c’è il ricordo dei “giusti”, di quanti con atti piccoli o grandi hanno saputo opporsi, con proprio pericolo, alla perversione del senso comune e alla minaccia della forza, hanno affrontato l’accusa di “tradire la patria” identificata coi poteri dominanti e l’asservimento conformistico. Tutt’una con la memoria del male, è la memoria degli atti e dei principî che hanno animato la resistenza al male, e che sono indicazioni tuttora fondative per il nostro giudizio e il nostro comportamento.
Eppure, perché è forse più facile la memoria del male che del bene? Perché è più gratificante indignarsi che agire; perché il male sofferto o inferto ci fa sentire in credito, mentre il bene ci fa sentire in debito. In debito di riconoscenza, ma anche dell’impegno di farci carico, noi stessi, dei principî di lucidità e di coraggio che hanno ispirato chi ha operato e opera con giustizia e speranza, contro corrente.

venerdì 17 gennaio 2014

macerata: l'accoglienza giusta spiegata agli studenti

fonte: la goccia onlus, aibi

Macerata: l’accoglienza “giusta”, spiegata agli studenti
pace in alto mare200
Macerata: l’accoglienza “giusta”, spiegata agli studentiSpiegare l’accoglienza “giusta” ai giovani studenti: è questo l’obiettivo dell’evento “Pace in Alto Mare”, organizzato dal gruppo diocesano di Azione Cattolica Ragazzi di Macerata, in collaborazione con lo sportello regionale di Amici dei Bambini, per il prossimo 1 febbraio, presso la parrocchia Cristo Redentore a Recanati.L’iniziativa, più nello specifico, mira a coinvolgere i ragazzi delle scuole elementari e medie in attività di sensibilizzazione e riflessione sulle storie di vita dei loro coetanei provenienti da Paesi diversi. Si tratta del primo intervento di questo genere nel contesto del progetto Bambini in Alto Mare, a cui peraltro saranno devoluti i fondi raccolti durante la giornata.“Chi sono i bambini stranieri che vanno in classe con i nostri ragazzi? Che storia hanno? Da dove provengono e perché hanno lasciato il loro paese? Che viaggio hanno fatto per arrivare fin qui? E noi, come li accogliamo?” Queste sono le domande a cui si cercherà di rispondere durante la giornata, con i ragazzi che parteciperanno e le rispettive famiglie. Un buon modo per rispondere concretamente al messaggio di Papa Francesco, e al suo invito a riflettere sulla fraternità, come fondamento e via per la pace.Si ricorda che grazie alla nuova campagna SMS solidale lanciata il 13 gennaio, fino al 2 febbraio prossimo, sarà possibile donare subito 2 Euro al progetto Bambini in Alto Mare, inviando un SMS  al numero 45509, oppure 2 o 5 Euro chiamando da rete fissa.

laboratori sul cibo

fonte: comune.info
A SCUOLA D'ESPERIENZA

Se il cibo non è una merce allora può diventare il protagonista di giochi e di una didattica esperenziale. "Mi accade, quindi, di ritrovarmi con decine di bambini in cerchio che ora ascoltano ed ora raccontano. O di fermarmi in silenzio ad osservare un piccolo pittore in erba che mi spiega, esprimendosi in colori, quanto sia difficile a volte scegliere cosa mangiare e cosa no - scrive Giusi, educatrice alimentare - E ancora, mi ritrovo a una lavagna, con piccoli folletti in grembiule con cui costruire la storia del miele o in una stalla ad osservare le effusioni di un’intera classe a un vitellino appena venuto al mondo. Voci di bimbo, fruscio di matite sui fogli, colori di forbici a punte arrotondate, odore di colla liquida, magia di libri da esplorare, domande, racconti e risposte sulla natura che ci offre i suoi doni. Il cibo è al centro di un grande gioco entusiasmante..." L'ARTICOLO COMPLETO

giovedì 16 gennaio 2014

nasce la prima classe montessori nel piceno

Nasce la prima classe Montessori del Piceno di Redazione - 12 Gennaio 2014
fobte: osservatore.eu

aperte dal 3 al 28 febbraio  all'Isc sud, scuola Alfortville. L'iniziativa  è nata grazie a un gruppo di genitori sambenedettesiSAN BENEDETTO DEL TRONTO - Sarà l’ISC Sud di San Benedetto del Tronto ad ospitare la prima classe con metodo Montessori nella provincia di Ascoli Piceno. Dal 3 al 28 Febbraio infatti, sarà possibile iscrivere i propri bambini ad una specifica sezione di scuola dell’infanzia nella moderna struttura di via Alfortville, recentemente inaugurata, e considerata fiore all’occhiello dell’edilizia scolastica della riviera.L’iniziativa è nata da un intraprendente gruppo di genitori sambenedettesi che, collaborando  tramite Facebook, in pochi mesi è riuscito a realizzare e proporre un vero e proprio progetto educativo ed a raccogliere un ampio consenso sul territorio.«La provincia di Ascoli è l’unica nelle Marche a non avere scuole di tipo montessoriano, né pubbliche né private - lamenta una delle mamme del gruppo -  Abbiamo quindi realizzato un gruppo Facebook e aggregato tutte le persone interessate a questo specifico argomento,ottenendo in poche settimane oltre 200 adesioni al gruppo e 30 famiglie pronte ad iscrivere i propri figli alla nuova classe del plesso di via Alfortville». Il dirigente scolastico dell’ISC Sud, Manuela Germani, ha dunque accolto con gioia la proposta dei genitori che si ripromettono di innovare non solo i metodi educativi ma anche il rapporto tra scuola, famiglia e comunità.  «Non ce lo aspettavamo - commenta un papà -  ma ci hanno accolto tutti a braccia aperte, sia nelle scuole che in provveditorato e in Comune, dove l'assessore Margherita Sorge ed i suoi collaboratori ci hanno dato la massima disponibilità e si sono adoperati sin da subito per realizzare le nostre idee». L’iniziativa ha raccolto l’entusiasmo di molti genitori, che hanno aderito in massa dai Comuni vicini così come da Cupra Marittima, Castorano e persino da Ascoli.Gli obiettivi del gruppo infatti, non si fermano all’introduzione del metodo montessoriano nelle scuole della provincia: agri-scuole con animali ed orti botanici; servizi mensa completamente biologici; gruppi di mutuo supporto alla genitorialità e persino per la ricollocazione nel mondo del lavoro dei genitori e la nascita di imprese innovative, sono solo un esempio delle idee che bollono in pentola nei prossimi mesi, per raggiungere la visione di una scuola che sia “una casa a misura di bambino e di genitori”.

iscrizioni anno scolastico 2014-2015 per alunni con disabilità

tutel antidiscriminatoria ed inclusione scolastica

fonte:  gruppo solidarietà
diGaetano De Luca
, Servizio Legale LEDHA
(Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità).
 
 
«La tutela antidiscriminatoria – scrive Gaetano De Luca – costituisce l’unico strumento giuridico che
consente di difendere e garantire un reale ed effettivo processo di inclusione e di partecipazione, proprio
in quanto partendo dall’oggettiva diversità che contraddistingue la condizione di disabilità di un alunno,
impone un trattamento disuguale per compensare la situazione di oggettivo svantaggio»
Le recenti Ordinanze dei Tribunali che hanno riconosciuto una
condotta discriminatoria
nell’inadeguata e insufficiente assegnazione di
ore di sostegno
hanno stimolato un
interessante dibattito e sollevato delle perplessità sul rischio di compromettere e pregiudicare i
princìpi dell’inclusione scolastica
[nell’elenco qui a fianco, alcuni testi da noi pubblicati, che
hanno anch’essi dato vita a tale dibattito, N.d.R.]
. Con questa riflessione, vorrei cercare di
evidenziare come questi provvedimenti della Magistratura costituiscano in realtà degli
importantissimi e preziosi precedenti
in quanto danno concreta attuazione al nuovo
approccio giuridico-culturale alla disabilità introdotto dalla
Convenzione ONU
sui Diritti delle
Persone con Disabilità.
La
prima perplessità
che è stata sollevata riguarda il rischio che il ricorso alla Magistratura
per ottenere maggiori ore di sostegno possa consolidare di fatto la tendenza in atto a delegare
il processo di inclusione scolastica ai soli insegnanti di sostegno. Sulla base di questi rischi, si
ritiene pertanto inopportuno puntare tutto sui ricorsi.
In relazione a questa prima critica, credo che alla luce dell’attuale situazione (docenti
curricolari non formati sulla disabilità e classi numerose), la scelta dei genitori di intraprendere
la via giudiziaria costituisca una
via forzata e necessaria.
Nel caso in cui rinunciassero infatti
a rivolgersi alla Magistratura, i loro figli rischierebbero di frequentare la scuola con un orario
ridotto oppure rimarrebbero in classe senza quella risorsa didattica specializzata e quindi
sostanzialmente parcheggiati e isolati dal resto della classe.
È indiscutibile che un reale processo di inclusione si verifichi solo quando si effettuano
esperienze e si attivano apprendimenti insieme agli altri, quando si condividono obiettivi e
strategie di lavoro, sedendo gli uni accanto agli altri. Dall’altra parte, però, non si può
dimenticare che alcuni bambini – per poter stare in classe insieme agli altri – hanno oggi
bisogno in ogni caso di un
supporto finalizzato
a far loro superare la barriera costituita non
tanto o non solo dalla propria condizione personale, ma prima di tutto dal
contesto sociale,
ambientale, culturale e relazionale
, che fa fatica a capire e ad interagire con bambini e
ragazzi che convivono con una menomazione.
Data per altro l’attuale impostazione e organizzazione della scuola italiana, credo
probabilmente che nemmeno un corpo di insegnanti curricolari adeguatamente formati sulle
questioni dell’inclusione scolastica e sulla didattica speciale sarebbe ugualmente sufficiente a
garantire un reale ed effettivo processo di inclusione, che richiede non solo insegnanti
competenti, ma anche
vere e proprie figure di supporto personalizzate
sulla base delle
specifiche esigenze delle diverse disabilità.
Infatti, se da una parte è vero che è l’intera comunità scolastica a dover essere coinvolta nel
processo in questione (e non solo una figura professionale specifica), non si può comunque
disconoscere la
specificità del ruolo e della funzione
svolta dall’insegnante di sostegno, che
è quella di supportare l’intero Consiglio di Classe nel prendersi in carico il progetto educativo
individualizzato dell’alunno con disabilità.
L’insegnante di sostegno non è l’insegnante “personalizzato” dell’alunno con disabilità, a lui
assegnato in via esclusiva. Si tratta invece di un insegnante assegnato all’intera classe. Ma non
si deve dimenticare che si tratta di una figura strumentale alla realizzazione di un diritto di
titolarità dello stesso alunno con disabilità, quello all’inclusione scolastica. L’insegnante di
sostegno, infatti, deve
aiutare i docenti della classe
a individuare le modalità più adeguate
per rendere più facile a questi alunni l’approccio allo studio delle diverse materie.
In altre parole, l’insegnante di sostegno è una figura professionale di tutta la classe, ma
assegnato
con lo specifico obiettivo
di consentire a un alunno con disabilità la realizzazione

macerata: laboratori didattici per la scuola secondaria

Macerata Racconta scalda i motori, 80 studenti per il primo laboratorio didattico

 

“Siamo molto orgogliosi di questi laboratori - afferma la responsabile-scuola dell’associazione conTESTO Benedetta Di Giovannantonio - perché la collaborazione con le scuole rappresenta un momento fondamentale del progetto Macerata Racconta che ci permette di offrire ai giovani degli spazi ulteriori di stimolo alla lettura e alla scrittura con un loro coinvolgimento diretto e attivo. E’ certo che, per l’associazione, rappresentano un impegno economico e organizzativo significativo, ma la crescente adesione, registrata negli anni, ai laboratori ci testimonia che la strada intrapresa è quella giusta”

 
mercoledì 15 gennaio 2014
studenti in biblioteca
gli studenti che oggi hanno partecipato alla prima lezione del laboratorio didattico organizzato dall’associazione conTESTO nell’ambito di Macerata Racconta
 “Mandami tanta vita”, è questa la richiesta che Piero Gobetti invia alla moglie Ada dal suo esilio forzato a Parigi. A raccontarlo è Paolo di Paolo, scrittore romano, che con il suo romanzo Mandami tanta vita, edito da Feltrinelli, si è classificato terzo al Premio Strega 2013. Ed è proprio questo libro l’oggetto del nuovo laboratorio didattico, riservato agli studenti delle scuole superiori di Macerata, che l’associazione conTESTO realizza avvalendosi della collaborazione dell’Istituto Storico Della Resistenza e dell’Età Contemporanea (ISREC) nell’ambito della prossima edizione di Macerata Racconta.
  “Siamo molto orgogliosi di questi laboratori - afferma la responsabile-scuola dell’associazione conTESTO Benedetta Di Giovannantonio - perché la collaborazione con le scuole rappresenta un momento fondamentale del progetto Macerata Racconta che ci permette di offrire ai giovani degli spazi ulteriori di stimolo alla lettura e alla scrittura con un loro coinvolgimento diretto e attivo. E’ certo che, per l’associazione, rappresentano un impegno economico e organizzativo significativo, ma la crescente adesione, registrata negli anni, ai laboratori ci testimonia che la strada intrapresa è quella giusta”.
  Nel primo pomeriggio di oggi, nella sala Castiglioni della Biblioteca Mozzi Borgetti di Macerata, alla presenza dell’assessore alla Cultura, Stefania Monteverde che ha portato il saluto dell’Amministrazione comunale, ha preso il via la prima lezione durante la quale sono stati consegnate dall’associazione conTESTO le copie del libro che gli studenti dovranno leggere e, successivamente, approfondire dal punto di vista storico con l’attenta guida dei ricercatori dell’ISREC, Maila Pentucci e Francesco Rocchetti. Infine, nell’ultimo appuntamento del laboratorio, previsto durante le giornate della Festa del libro Macerata Racconta, gli allievi incontreranno l’autore Paolo Di Paolo per dialogare con lui sul suo romanzo.

 
Stefania Monteverde
L'assessore Stefania Monteverde ha portato il saluto dell'Amministrazione comunale
Gli 80 studenti che hanno aderito al progetto di laboratorio provengono da diverse classi del Liceo Scientifico Galilei, dell’ITC Gentili, dell’IPCT Pannaggi, dell’ITA Garibaldi e dell’ITAS Ricci, coadiuvati dal prezioso apporto delle rispettive docenti, Annalisa Campanaro, Elvira Pagnanelli, Nunzia Savino e Anna Luigia Rinaldi. Al termine del laboratorio riceveranno, in accordo con l’assessorato alla Scuola del Comune di Macerata, un credito formativo valevole per il loro percorso di studi.
  A febbraio partirà, invece, il secondo laboratorio didattico, questo dedicato alla scrittura, durante il quale l’autore e copywriter Massimo De Nardo formerà gli studenti sulla scrittura e sulla comunicazione a fini pubblicitari. (lb)
 

mercoledì 15 gennaio 2014

CLASSI-GHETTO



 Vivalascuola. Parlano di inclusione e praticano la separazione  Pubblicato su gennaio 13, 2014 da vivalascuolaSi predica l’inclusione e si pratica la separazione. Nell’anno in cui si parla di BES (Bisogni Educativi Speciali), si allestiscono classi separate per studenti stranieri realizzando nelle scuole una odiosa apartheid: classi-ghetto a Bologna, come primaad Alte Ceccato (Vicenza), a Costa Volpino (Bergamo), a Landiona (Novara)… La Lega Nord ne approfitta per riproporre le “classi separate per i bambini stranieri che non sanno l’Italiano”, ignorando quanto dicono linguisti ed esperienze: che la migliore integrazione si realizza sui banchi di scuola. In questa puntata divivalascuola Marina Boscaino fa un quadro della problematica dell’inclusione degli studenti stranieri nella scuola italiana, Carmelo Cassalia avanza alcune proposte, Beatrice Damiani esprime il disagio dell’insegnante quando la scuola diventa un ghetto.