giovedì 30 ottobre 2014

rapporto ocse 2014 sulla scuola italiana

fonte: la scuola di mafalda

il rapporto ocse 2014 sullo stato dell'istruzione in italia

Diamo uno sguardo al rapporto OCSE “Uno sguardo sull’istruzione 2014 – Italia” e iniziamo con gli aspetti positivi. Nel nostro paese: 
- “complessivamente il livello di istruzione è aumentato, specie per le donne” (nel 2012 il 62% dei nuovi laureati è di sesso femminile, rispetto a una percentuale di donne laureate del 56% nel 2000) 
- “la qualità dell’istruzione di base sta migliorando costantemente”, anche se nonostante i recenti miglioramenti registrati, il livello medio di competenze in comprensione dei testi scritti (lettura) e matematiche in Italia resta basso rispetto ad altri Paesi.
Ma le difficoltà dei giovani nel trovare lavoro fanno diminuire la motivazione dei giovani italiani nei confronti dell'istruzione. E’ infatti in costante aumento la percentuale dei 15-29enni senza attività lavorativa e che sono usciti dal sistema di istruzione (i cosiddetti NEET – Neither employed nor in education or training). Insomma, perché studiare se poi non riesco a trovare lavoro?
Il rapporto non manca di sottolineare che “tra i 34 Paesi esaminati con dati disponibili, l’Italia è il solo Paese che registra una diminuzione della spesa pubblica per le istituzioni scolastiche tra il 2000 e il 2011, ed è il Paese con la riduzione più marcata (5%) del volume degli investimenti pubblici tra il 2000 e il 2011”. Con l’avvento della crisi economica, pro­prio nel momento in cui tutti gli altri paesi hanno inve­stito sulla cono­scenza (+25% la Ger­ma­nia, +41% la Fin­lan­dia, con una media Ocse del 38%), il nostro paese ha tagliato la spesa del 3%.
Le spese in conto capitale (edilizia scolastica, acquisto di nuove attrezzature, ecc.) rappresentavano nel 2011 solo il 3,7% del totale della spesa per le istituzioni della scuola primaria, secondaria e post secondaria non terziaria, uno dei livelli più bassi tra i Paesi dell’OCSE.
Nel 2012 il 62% dei pro­fes­sori aveva più di 50 anni (48% nel 2002). È la più alta per­cen­tuale di inse­gnanti over 50 dei paesi Ocse. Il salario medio degli insegnanti della scuola primaria e secondaria inferiore è diminuito (in termini reali) del 2% tra il 2008 e il 2012. Le retribuzioni degli insegnanti con 15 anni di esperienza sono diminuite del 4,5% tra il 2005 e il 2012 per tutti i livelli d’insegnamento. Nonostante mal­pa­gati, i docenti hanno tut­ta­via con­ti­nuato a lavo­rare con pro­fitto (considerato l’aumento della qualità dell’istruzione di base) in classi sem­pre più nume­rose («pol­laio»). 
Secondo il Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini “il Rapporto del governo ‘La buona scuola’ offre risposte concrete ai dati diffusi oggi dall’Ocse” [il comunicato del MIUR] poiché pone la scuola al centro dell’azione del governo. Quanto agli insegnanti, “il nostro piano - conclude Giannini - abolisce il precariato, immette nella scuola insegnanti che hanno in media 40 anni e apre le porte ai giovani neo abilitati con assunzioni per concorso. Questa è la nostra risposta”. Anche se, aggiungiamo, non si sa dove tro­verà i 4,1 miliardi di euro neces­sari.  

Il rapporto OCSE “Uno sguardo sull’Istruzione 2014 – Italia” [clicca qui]
“Uno sguardo sull’istruzione 2014 – Indicatori dell’OCSE – Sintesi in italiano” [clicca qui]
Il rapporto completo Education at a Glance 2014: OECD Indicators (in inglese) [clicca qui]

Rassegna Stampa:
- Gli occhiali da sole dell'OCSE, Guseppe De Nicolao, il manifesto, 9.9.2014 [clicca qui]

la buona scuola.........?

fonte: la scuola di mafalda

back to school con renzi l’americano (di anna angelucci)

Rem tene, verba sequentur, si diceva tanto tempo fa. E allora analizziamo le parole e ricostruiamo induttivamente il paradigma culturale sotteso alla recente proposta del Governo sulla scuola.
Il documento, da sottoporre nei prossimi due mesi a consultazione online e offline, è tutto un florilegio di anglismi: la scuola deve uscire dalla comfort zone e diventare l’avamposto del rilancio delmade in Italy. Dotarsi di insegnanti mentor capaci di proporre formazione online ma anche blended. Produrre piattaforme sperimentali con un design challenge lanciato presto da un hackaton mirante alla creazione di una app. Attrezzarsi per sfide di governance e policy a colpi di data school nazionali,
design di servizi opening up education, ovviamente riferita alle best practices.
Ma non basta: finalmente arriva la good law e il nudging sbarca al Miur perché «assicurare piena comprensione e chiarezza su quanto il Miur pubblica è un’azione di apertura e trasparenza di pari dignità rispetto all’apertura dei dati».
La buona scuola promuove il CLIL, cioè il Content and Language Integrated Learning, e alle elementari insegna il codingattraverso la gamification. Valorizza il problem solving, il decision making e, ove necessario, potenzia l’agri-business. Gli studenti diventeranno digital makers, si supererà il digital divide e riusciremo a intrattenere gli early leavers, ovvero quei «giovani disaffezionati» (sic) che la scuola oggi non riesce a tenere con sé. Per fare questo adotta il BYOD, bring your own device, ovvero «portati il tuo pc da casa». Ma, non paga, la buona scuola del governo proporrà school bonusschool guaranteecrowdfunding, emettendo all’occorrenza social impact bonds a beneficio dei privati che vorranno approfittare del succulento banchetto dell’istruzione imbandito da Renzi. Good appetite.
Ma l’anglofilia del documento non si esaurisce nella patina lessicale e nel registro linguistico. La buona scuola di Renzi è quella americana, autonoma nell’organizzazione, nella didattica e nei finanziamenti.
È la scuola intesa non come istituzione della Repubblica, costituzionalmente garantita a tutti e che offre pari opportunità di accesso critico alla conoscenza e al sapere, bensì come espressione differenziata, culturalmente marcata e competitiva, delle realtà e delle comunità locali: la scuola che si fa il suo progetto formativo e si cerca sul mercato qualcuno che abbia interesse a pagarlo.
La scuola, in America, è nata prima degli Stati Uniti, quando i coloni strappavano le terre ai Nativi e costruivano prigioni e saloon. Comitati locali le organizzavano, spesso in case private, si procuravano gli insegnanti, mettevano a disposizione i libri e la Bibbia non mancava mai. Oggi i comitati si chiamano Consigli Direttivi, sono composti da cittadini eletti e mantengono gli stessi compiti: adottano programmi didattici e gestiscono il bilancio. L’autonomia scolastica consente alle famiglie americane
il controllo sui contenuti dell’insegnamento — in Lousiana e nel Tennessee, la lobby creazionista ostacola tenacemente l’insegnamento dell’evoluzionismo — e permette ai funzionari eletti di imporre contenuti e metodi di insegnamento nei loro distretti scolastici.
La frammentazione della scuola pubblica americana ha prodotto e produce risultati scolastici così scadenti da indurre oggi il Congresso a forme di controllo centralizzato ex post. Standard e obiettivi di apprendimento nazionali da misurare con batterie di test dai cui risultati dipende la sopravvivenza o la chiusura delle scuole. Un rimedio peggiore del male, perché trasforma l’insegnamento in addestramento e, soprattutto, non solleva gli studenti americani dalle ultime posizioni nelle classifiche
internazionali. La buona scuola di Renzi è quella di un paese, l’America, in cui le scuole migliori sono private e costosissime; un paese in cui anche le scuole pubbliche, finanziate con la fiscalità municipale, possono avere rette molto elevate e dove le più accessibili si trovano nei quartieri deprivati e accolgono i poveri, gli svantaggiati, i discriminati. Un paese in cui la disparità economica è direttamente proporzionale alla disparità educativa.
C’è un passaggio, nel documento, in cui si dice che «ogni scuola dovrà avere la possibilità di schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione», ossia la libertà di scegliere i docenti che riterrà «più adatti» per realizzare la propria offerta formativa. La metafora calcistica di berlusconiana memoria, rivela esattamente qual è la direzione del governo: portare a compimento il processo di privatizzazione della gestione della scuola intrapreso da Berlinguer con la legge sull’autonomia e, contemporaneamente, completare il percorso di arretramento dello stato inaugurato da Tremonti, fino alla completa dismissione della scuola pubblica. Il preside-manager, costantemente
in cerca di sponsor per finanziare la sua scuola, sceglierà e licenzierà discrezionalmente i suoi docenti, affiancato in questo da un nucleo di valutazione in cui la presenza di esterni garantirà forme di controllo politico-culturale ma soprattutto il ritorno economico degli investimenti privati. 
L’esperienza di Channel One, che in America ha un contratto con 12.000 scuole, imponendo a milioni di studenti in classe dosi quotidiane della sua programmazione televisiva e pubblicitaria, dovrebbe indurre i cittadini italiani a una riflessione seria. Il resto del documento è pura demagogia. La proposta del servizio civile a scuola, la collaborazione con il terzo settore, l’ingresso del volontariato: un omaggio dell’esecutivo a certa cultura scoutista e democristiana; il riferimento alla sussidiarietà, una strizzata d’occhio a Compagnia delle Opere e a Comunione e Liberazione.
E infine, l’impegno di assunzione di 150.000 precari nel 2015, accompagnato dall’ignobile ricatto a milioni di insegnanti di ruolo che impone di rinunciare al loro attuale status giuridico e di restare inchiodati fino alla pensione al loro miserevole stipendio iniziale. Un impegno spacciato come scelta e come testimonianza della volontà del governo di investire nella scuola, in realtà ineludibilmente imposto dalla procedura d’infrazione avviata a Bruxelles contro l’Italia per la violazione della normativa
comunitaria sulla reiterazione dei contratti a termine.
Una promessa da far tremare i polsi in tempi di tagli draconiani e di riforme feudali imposte dalla Troika: ma forse, l’ennesima velleità di chi, assai pericolosamente, «vuo’ fa’ l’americano».

Anna Angelucci, Associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica
15.9.2014, il manifesto

mercoledì 29 ottobre 2014

ANCORA SU CLASSI POLLAIO.....

FONTE: UNA CREPA IN COMUNE

In Italia troppi alunni per classe (di P. Almirante)

Secondo il primo rapporto internazionale sull'Efficienza della spesa per l'educazione, condotto da Peter Dolton, esperto mondiale di economia dell'educazione della London School of Economics, insieme a Oscar Marcenaro Gutiérrez dell'Università di Malaga e ad Adam Still di Gems Education Solutions, tra i motivi della inefficienza della scuola italiana, e del consueto fondo della graduatoria dell’Ue, ci sarebbe anche l’elevato numero di alunni per classe.
Che appare strano, perché ci hanno sempre detto e ripetuto il contrario e cioè che in Italia ci sarebbero troppi docenti in rapporto agli alunni. E invece improvvisamente si scopre che, con dati ufficiali e quindi neutri, le denunce venute da tutta Italia contro le cosiddette classi pollaio hanno una loro circostanziata verità. Cosicché tra i motivi della inefficienza della scuola italiana, tastata dall’Ocse,  che ci sbatte  "tra gli ultimi della classe",  c’è  l’eccessivo numero di alunni per classe. Tanto che il rapporto suggerisce all’Italia,  per guadagnare qualche posto in classifica, di utilizzare due alternative: o aumentare gli stipendi degli insegnanti o ridurre il rapporto prof-studenti.
Ben sapendo che entrambi i suggerimenti sono inattuabili, questo primo rapporto, commissionato da Gems e presentato a Londra, e che  analizza "l'efficienza con cui vengono allocati i budget per l'istruzione in ciascun paese, conferma che  l'Italia potrebbe ottenere risultati Pisa ai livelli della Finlandia, se riducesse il rapporto insegnante-allievo da 10,8 a 8,2 alunni per ogni insegnante (-24,4%). O, in alternativa, se aumentasse lo stipendio degli insegnanti dalla media attuale di 31.460 dollari a 34.760 dollari, cioè un aumento del 10,5%.”
“Stando a questi calcoli l'Italia, per avere un migliore rapporto qualità-prezzo, dovrebbe spendere di più e ridurre il numero di allievi per insegnante o aumentarne lo stipendio".
Se dunque si dovesse prendere questa analisi internazionale con le dovute attenzioni, cercando gli opportuni ripari, si capisce bene che la scuola italiana non ha alternative di miglioramento, sia perché hanno bloccato i contratti e quindi anche gli aumenti salariali, e sia perché, oltre a mancare ancora scuole e strutture, nelle nostre aule scolastiche si può andare fino a un massimo di 29 alunni nella scuola dell’infanzia, 27 nella primaria, 30 nella secondaria di primo e di secondo grado. Ma anche oltre i 30 alunni per evitare di comporre classi inferiori a 27 che è il minimo per le classi iniziali.
(Pasquale Almirante, 7.9.2014, tecnicadellascuola.it)

classi pollaio

fonte: una crepa in comune

Nella "buttanissima" Sicilia una classe di 42 alunni di cui 4 disabili

Pochi giorni fa, il 19 settembre, la Preside del liceo delle Scienze Umane Alessandro Manzoni di Caltanissetta, Giuseppina Mannino Pirrello, denuncia con una lettera aperta al giornale on-line "Il Fatto Nisseno.it" la costituzione di una classe di 42 alunni, di cui 4 disabili. E' notizia di oggi (21 settembre) che il Ministero ha dato il via libera allo sdoppiamento della classe. Un caso isolato? Secondo Andrea Manerchia della Rete degli studenti medi Sicilia "a Caltanissetta, al liceo scientifico, c'è una classe con 40 alunni; all'ITI Mottura analogamente ne esiste una con 41. A Palermo vi sono classi con 35, 36, 39 alunni, che per condurre la lezione sono spesso costretti a soluzioni di fortuna, come quella di trasferirsi temporaneamente in capannoni, garage o stabili trascurati e lontani dalla sede centrale, situazioni tipiche delle province più disagiate". La Buona Scuola.

La lettera aperta della Preside
 << La buona scuola. Si chiama così la riforma che Renzi e la ministra Giannini, elegante, dotta  signora, hanno di recente sbandierato in televisione. La buona scuola è quella che hanno frequentato loro e quella dei loro figli, in classi costituite tutte da italiani, senza disabili, con un numero massimo di 25 alunni, con insegnanti preparati e stabili per tutto il percorso scolastico… Se io vi raccontassi che esiste una scuola, ove per legge, per le direttive fissate dal nostro ministero, si formerà una classe con soli 42 alunni, di cui 4 disabili, e che questi alunni saranno costretti per legge a fare lezione in aula magna, perché nessuna classe mai potrà contenere tutte queste persone per ragioni di sicurezza? Ecco la scuola in questione c’è, esiste, si trova in Italia, ed è un liceo delle Scienze Umane. Dove? Nella “buttanissima” Sicilia, nella povera provincia di Caltanissetta. Il dirigente scolastico della scuola in questione ha fatto tutto ciò che era in suo potere per chiedere lo sdoppiamento della classe che, ad oggi, le è stato rifiutato dagli organi competenti, i quali hanno, giustamente da parte loro, sbandierato il famigerato budget a disposizione, che per questioni di legge, non può e non deve sforare. Certo signori miei, perché non ci vuole un genio per capire che una classe in meno significa personale docente in meno ... Ma i figlioli del democraticissimo Renzi dove vanno a scuola? E quelli della dottissima e pacatissima Giannini hanno frequentato una classe con altri 41 compagnetti? Non so perché, sarà il famoso sesto senso femminile, sarà che ho un fiuto particolare, ma credo di sapere la risposta. Certo è uno scandalo che ci siano precari della scuola da 40 anni, ovvio … Ma cosa è se non uno scandalo che in Italia, nel 2014 ci sia una legge che obblighi un dirigente scolastico a ficcare dentro una stanza 42 persone e pretendere che un insegnante riesca a svolgere il proprio dovere in queste condizioni! Ma questi Signorotti di turno lo sanno cosa succede nel Paese che loro credono di governare ma che invece, in ogni angolo, va a rotoli? Ma i Signorotti sono talmente buoni e democratici da avere aperto una consultazione on line per la riforma sulla scuola. Ma Loro, i Signorotti, lo sanno che ci sono presidi, dirigenti scolastici, che ogni santo giorno si scontrano con queste leggi che loro, i Signorotti, hanno fatto per potere garantire il diritto allo studio ai ragazzi di questa povera Italia? E’ il lavoro sul territorio dei dirigenti scolastici, loro sì rappresentanti  e difensori dell’istituzione scuola, che garantisce ancora un briciolo di dignità a questo Paese. Signori miei, Renzi, Giannini e tutti i perbenisti e benpensanti, provateci voi a entrare in una classe con 42 ragazzi di 16 anni di cui si deve riuscire a captare l’attenzione per poi fare una lezione, signori miei provateci voi a 16 anni a stare in classe con 42 persone , signori miei provateci voi a mandare i vostri figli in queste condizioni vergognose a scuola….la buona scuola? C’è solo da gridare vergogna! >>
Il Dirigente scolastico
Prof.ssa Giuseppina Mannino Pirrello


NOTA DEI COBAS SU IMPORTANTE SENTENZA TAR SICILIA CONTRO LE CLASSI POLLAIO

I COBAS SCUOLA CONTRO LE “CLASSI POLLAIO” - UN'IMPORTANTE SENTENZA DEL TAR SICILIA
Il TAR Sicilia con la sentenza n. 2250/2014 riconosce quanto da noi sempre sostenuto: l'eccessivo numero di alunni per classe, oltre a aggravare i rischi relativi alla sicurezza, incide negativamente sulla qualità della didattica pregiudicando la formazione degli alunni e, in particolar modo, non consentendo la piena integrazione dei disabili.
I Cobas Scuola di Palermo hanno sostenuto i genitori e gli studenti, rappresentati dall'avv. Chiara Garacci, che hanno impugnato il decreto con cui il dirigente di un liceo palermitano decideva l'accorpamento di due classi quarte, con la conseguente costituzione di una sola classe con 24 alunni dei quali 4 disabili gravi.
L'accorpamento pretendeva di giustificarsi con quanto contenuto nell'art. 17, comma 1, del d.P.R. n. 81/2009, secondo il quale, “le classi intermedie sono costituite in numero pari a quello delle classi di provenienza degli alunni, purché siano formate con un numero medio di alunni non inferiore a 22; diversamente si procede alla ricomposizione delle classi secondo i criteri indicati all'articolo 16”.
La sentenza accoglie invece la tesi, da noi sostenuta, che in casi del genere, il numero di alunni per ciascuna classe (iniziale, intermedia o finale) non può superare il tetto di venti unità.
Significativo il passaggio in cui il TAR sottolinea la circostanza che il d.P.R. n. 81/2009, contempli l’ipotesi della presenza di disabili unicamente per le prime classi e non anche per quelle intermedie e ciò “impone un’interpretazione dello stesso dato normativo in linea con le esigenze di inclusione dell’alunno disabile così come tracciate dalla legislazione interna di riferimento e dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità”.
La sentenza sostiene la necessità che “una lettura improntata a parametri di logicità impone di ritenere che il limite dei venti alunni previsto per le «classi iniziali» debba considerarsi valido per tutte le classi. D’altronde, in tema di classi intermedie (e terminali), il rinvio dell’art. 17 al precedente art 16 (che riguarda le classi iniziali diverse da quelle dell’art. 5, queste ultime inerenti alla presenza di alunni con disabilità), impone di differenziare dette classi intermedie in ragione della presenza o meno di disabili, se non a pena di giungere al risultato, totalmente contrario allo spirito, alla logica e alla ratio della disciplina, di consentire, astrattamente, per le classi intermedie, un aumento del numero di allievi rispetto a quelli di provenienza (da 20 a 22) in ipotesi di presenza di disabili, e, per altro verso, una riduzione (da 27 a 22) per tutte le altre classi in cui non è contemplata la presenza di disabili”.
Proprio quanto abbiamo sempre sostenuto: una diversa lettura della norma porterebbe alla paradossale conclusione che le classi maggiormente bisognose di tutela da parte dell'ordinamento, perché accolgono alunni con grave disabilità, subirebbero un trattamento deteriore perché dopo essere state costituite con 20 alunni (o meno) sarebbero destinate a sicura scomparsa in quanto non permetterebbero il rispetto del limite dei 22 alunni indicato dall'art. 17 del d.P.R. n. 81/2009.
La sentenza affronta poi la questione se l'esito positivo dello scrutinio finale per gli alunni disabili dimostrerebbe da sé l'assenza di un danno, chiarendo che “al di là dell’esito dello scrutinio del corpo docente è indubbio che l’allocazione in una classe con un numero di alunni di gran lunga inferiore avrebbe certamente garantito per tutti un servizio quantomeno migliore oltre che in linea con le previsioni normative”.
Continueremo a sostenere i diritti degli alunni e invitiamo l'Amministrazione e i dirigenti scolastici a garantire che in tutte le scuole siano rispettate almeno le condizioni essenziali di vivibilità: numero di alunni per classe, capienza delle aule, piena integrazione dei disabili.


scoprire la scrittura in modo diverso

fonte: comune.info

Scoprire la scrittura in modo diverso

Giocare sulle motivazioni nell’apprendimento della lettura e della scrittura, rispettare i ritmi individuali di ciascun bambino, creare un clima disteso, abbandonare i libri di testo preferendo una biblioteca magari plurilingue, incoraggiare i bambini ogni giorno nei loro sforzi, formare gruppi di conversazione, ma soprattutto lasciarli “scrivere” nella loro lingua (Gabriele in “gabrielese”, Archanah in “archanese”, Sami in “samiese”…) e leggere insieme alcuni libri per reinventare il finale. Scoprire la lettura in modo diverso significa porre le basi per costruire piccole comunità inclusive, creative, accoglienti. A scuola e fuori 
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Angela Maltoni*
Da dove sono partita
Per anni sono stata un’insegnante precaria, “ruotando” senza potermi mai fermare su un’infinità di classi in tante scuole diverse. Sicuramente questo ha contribuito in maniera determinante alla mia formazione professionale, perché mi ha dato l’opportunità di osservare realtà variegate e di operare in attività e aree disciplinari variabili. Non ancora in ruolo ma con incarichi che poco alla volta mi concedevano un più ampio respiro temporale, mi sono ritrovata con un libro di testo e un metodo d’insegnamento standard.
Mi era capitato di sentir parlare di scuole che sperimentalmente avevano sostituito i libri con una biblioteca scolastica, e la cosa mi entusiasmava molto. Da quando ho iniziato a lavorare nella mia attuale scuola – un Istituto Comprensivo
a forte processo migratorio – ho dovuto sempre più spesso adattare le attività alle esigenze degli alunni neo arrivati. In quegli anni – eravamo all’inizio del 2000 – nel mio Istituto, oltre a un tessuto culturale deprivato, c’era anche un’altra emergenza: il “codice rosso”, che scattava a ogni arrivo in corso d’anno di bambini immigrati. Una continua emergenza di alfabetizzazione che complicava ulteriormente le cose, impedendo di lavorare alla valorizzazione delle culture e delle lingue dei nuovi arrivati. Oltretutto l’adozione del libro di testo mi obbligava a semplificare o ampliare argomenti trattati in modo non adeguato rispetto al contesto nel quale operavo.
All’epoca non tralasciavo mai la grammatica, che proponevo fin dalla prima. Nonostante tanta attenzione e fatica, mediamente nelle mie classi quasi la metà dei bambini sviluppava scarse capacità linguistiche, aveva difficoltà specifiche di apprendimento o, più sempli- cemente, si mostrava poco motivata all’apprendimento.
Dopo essermi a lungo interrogata e documentata su cosa ci fosse di sbagliato, sono arrivata alla conclusione che probabilmente il metodo utilizzato, compresa l’introduzione precoce della grammatica, non fosse adatto a “quei” bambini. La lettura delle ricerche di Emilia Ferreiro e Ana Teberosky (1985) mi ha dato una grande spinta nella ricerca di un metodo “rispettoso” delle esigenze dei bambini. Anche la conoscenza delle teorie di Paul Le Bohec (2006), allievo di Célestin Freinet, mi ha aiutato a riflettere sul significato di alfabetizzare e il metodo da utilizzare.
Verso la fine dell’ultimo ciclo “normale” ho iniziato ad approfondire la questione cercando, tra i diversi metodi, quello più attento ai tempi dei bambini e più adatto all’utenza della mia scuola. L’alto numero di alunni non italofoni di prima e di seconda generazione mi ha offerto lo spunto per creare una classe sperimentale dove tutti i bambini potessero svolgere attività per valorizzare le lingue e le culture d’origine. L’ipotesi era che, una volta libera di adottare proposte educative più flessibili, avrei potuto aiutare bambini tanto diversi a costruirsi almeno una parte di quegli strumenti necessari per “leggere” la società futura. Con l’obiettivo finale di costruire una classe coesa e affiatata è nato il “Curricolo Interculturale”, inteso ad abbracciare tutte le materie di studio in un’ottica globale, aperta all’intercultura e alla multicultura, per superare alcuni preconcetti e pregiudizi attraverso la condivisione dei vissuti personali. In questo contesto la lettura e la narrazione sono intese come mezzo per comunicare e per discutere, e ogni argomento è affrontato dal punto di vista della riflessione interculturale (Maltoni 2013).
scuola2
La scelta del Metodo
È nato così il Progetto Sperimentale “Insieme per un fu turo più equo”, e la scelta per l’insegnamento della lettura e della scrittura è caduta sul Metodo Naturale ispirato alla pedagogia di Celestin Freinet opportunamente adattato al contesto in cui operavo. Delle teorie di Freinet è stato accolto il principio della centralità attribuita alla motivazione nell’apprendimento della lettura, connessa all’idea che essa debba svilupparsi sulla base dei reali bisogni e interessi dei bambini; così come la valorizzazione della scoperta spontanea e il rispetto dei ritmi individuali di ciascun bambino. Del resto, come sostenuto da Bruna Campolmi, questa pratica definita “Metodo Non Metodo” è particolarmente adatta a quelle classi in cui sono presenti bambini diversamente abili o con difficoltà di apprendimento, oppure di recente immigrazione. La valorizzazione di tutte le diversità permette così di creare un clima positivo e accogliente, in grado di garantire a tutti la possibilità di esprimersi e di comunicare senza ansia o timori (Campolmi – Carloni 2010). Il Metodo Naturale è stato quindi rivisto e modellato secondo le mie peculiarità e sulle esigenze della classe, sulla base della convinzione della sua bontà in contesti educativi come quelli in cui mi ero trovata e continuo a operare. Una condizione, quest’ultima, che ritengo essenziale per poterlo applicare nelle nostre classi. È lo stesso Freinet a ricordare che «un buon metodo non deve essere né esclusivamente globale, né analitico: deve essere vivo, con un ricorso equilibrato e armonioso a tutte le possibilità che il bambino porta con sé, ostinato nel superarsi, nell’arricchirsi, nel crescere» (Le Bohec – Campolmi 2001, p. 61).
Una volta trovato il metodo giusto ho iniziato a lavorare molto più serenamente di prima. I bambini con questa impostazione didattica si sentono molto più liberi nella scoperta della scrittura, di sperimentarne la tecnica nei tempi e nei modi a loro più consoni. E riescono da soli a utilizzare in modo del tutto naturale la scrittura. Questa impostazione li motiva tantissimo, anche se parallelamente da parte dell’insegnante si rendono necessari stimoli ben diversi rispetto a quelli usati comunemente. Occorre infatti rivedere completamente il modo col quale si insegna; bisogna mettersi giornalmente “accanto” a loro, abbandonare il libro di testo, attuare una serie di strategie per stimolare il desiderio di imparare.
Scrittura e Scuola dell’Infanzia
Verso la fine del primo ciclo di sperimentazione – e in previsione di ripartire con una nuova classe sperimentale – ho pensato di coinvolgere precocemente in attività legate al Progetto i bambini che stavano frequentando la scuola dell’infanzia. Avevo l’esigenza di capire meglio alcune dinamiche di apprendimento proprie dei più piccoli. La ricerca, durata due anni, mirava a osservare la scoperta della scrittura spontanea per capire a che punto della concettualizzazione della lingua scritta si trovassero i bambini. Con il supporto iniziale degli alunni della mia classe quarta ho proposto attività di “continuità precoce” con i piccoli di quattro anni e successivamente con quelli di cinque coinvolgendoli con esercizi di scrittura spontanea stimolati dalla narrazione di un testo inventato dai “grandi” e raccontato con la tecnica del Kamishibai. Successivamente ai bambini di cinque anni ho proposto la scrittura di parole monosillabiche, bisillabiche e trisillabiche per valutarne il livello. Al termine di questo percorso le differenze sono risultate tante e interessanti: infatti, come ricorda Pollam, «bambini della stessa età, in base alla loro esposizione alla lingua scritta, possono trovarsi a livelli diversi di concettualizzazione. L’obiettivo ovviamente non è quello di anticipare, ma di favorire tale processo attraverso la creazione di un ambiente stimolante e l’attivazione di proposte che tengano conto di quella eterogeneità cognitiva che i bambini di una classe esprimono» (Pollam 2001 p. 11).
In questa fase mi sono resa conto di quanto la scuola dell’infanzia, soprattutto organizzata con classi eterogenee, non sia impostata per proporre un avvio alla scrittura “rispettoso” della normale evoluzione del bambino. “Far scrivere” bambini di tre/quattro anni è solitamente inteso come alfabetizzarli a un codice a cui ancora non sono pronti. Per questa ragione vengono spinti ad attività di copiatura spesso “senza senso” o limitati al solo disegno. Anche l’ambiente non è attrezzato con adeguati stimoli e la lettura da parte dell’insegnante è un’attività sporadica. Tutto questo – come mi ha personalmente confermato in un recente incontro la psicopedagogista Ana Teberosky – è penalizzante per i bambini, che arrivano alla scuola primaria poco pronti alle attività di scrittura. Il vero significato dell’uso precoce della scrittura spontanea è quello di convincerli a essere liberi di esprimersi utilizzando le modalità operative che preferiscono e che hanno interiorizzato fino a quel momento, senza forzarli a usare un codice convenzionalea loro sconosciuto. Negli ultimi decenni Pontecorvo e Zucchermaglio hanno analizzato i rapporti tra competenza metalinguistica e processo di apprendimento della scrittura e della lettura, arrivando alla conclusione che il livello raggiunto dai singoli bambini all’ingresso nella scuola primaria è un indice predittivo particolarmente significativo rispetto ai futuri successi nell’apprendimento in ambito linguistico. È notevole quindi l’incidenza della scuola dell’infanzia e dell’ambiente circostante nello stimolare il bambino nel processo di avvicinamento al “mondo delle scritte”, facilitandone la riflessione metalinguistica. Freinet, precorrendo i tempi, ha analizzato il percorso per arrivare alla mèta: «Il bambino passerà, dai quattro ai sette anni, senza esercizi sistematici, dal linguaggio parlato al linguaggio scritto, facendo la scoperta della struttura della lingua scritta con l’aiuto del metodo naturale» (Freinet 1978, p. 50). In questo lavoro mi sono state di grande aiuto le teorie di Emilia Ferreiro e Ana Teberosky, che forniscono una preziosa chiave di lettura rispetto allo stadio di concettualizzazione della lingua in cui si trova il singolo bambino. «Imparare a scrivere non può essere considerato un processo discontinuo, un brusco passaggio da un non sapere al sapere. Quando a scuola i bambini vengono esposti per la prima volta ad un’istruzione formale si trovano in qualche punto di un’evoluzione cominciata molto tempo prima» (Zucchermaglio 1991, p. 41).
Verso la conquistadel codice
Ho potuto verificare come – per formulare le ipotesi e comprendere il significato delle scritte – i bambini seguano una successione ordinata di modelli concettuali secondo una regolarità che scandisce storie evolutive articolate in fasi e livelli. Questo importante lavoro, svolto quotidianamente, è lungo e faticoso ma estremamente interessante perché il bambino viene sollecitato a esprimersi con la “sua” scrittura e seguito individualmente per decifrare ciò che ha elaborato. In questa fase l’insegnante funge da “scriba”, permettendo alla “non scrittura” di assumere valore convenzionale oltre che essere stimolo per l’acquisizione del codice. Parallelamente si riesce a controllare e valutare il livello di concettualizzazione della lingua scritta. È fondamentale in questa fase che il bambino sia supportato e che i suoi progressi, anche se minimi, vengano incoraggiati in modo da renderlo partecipe del percorso che sta affrontando e della méta che si appresta a raggiungere. Soprattutto all’inizio, alcuni devono essere costantemente incoraggiati e tranquillizzati perché si rifiutano di scrivere o di leggere adducendo la scusa di non esserne capaci. In questo delicato frangente ho usato la tecnica, suggerita da Campolmi e mutuata da Romano, di lasciarli “scrivere” nella loro lingua: Gabriele in “gabrielese”, Archanah in “archanese”, Sami in “samiese” e a seguire tutti gli altri. È stato “l’uovo di Colombo” (Le Bohec – Campolmi 2001), perché in questo modo i bambini si rilassano e si lasciano andare. Nelle prime attività di scrittura attingono, dalle lettere del proprio nome o da quello dei compagni, un repertorio di segni alfabetici utilizzato poi per scrivere nuove parole. All’inizio della prima scrivo tutti i loro nomi su cartoncini plastificati per meglio maneggiarli e li coinvolgo ogni mattina in giochi di riconoscimento del proprio nome e di quello dei compagni. Successivamente, in attività di piccolo gruppo, i nomi vengono scomposti in singole lettere poi assemblate per formare altre parole. In questa fase è importante coinvolgere e spiegare ai genitori la metodologia adottata, chiedendone la collaborazione per valorizzare le produzioni dei bambini e non ostacolare con ingerenze inappropriate, anche se in buona fede, il naturale processo di apprendimento.
A tutto questo è d’aiuto anche il lavoro cooperativo, dove il confronto tra coetanei offre un contributo fondamentale all’evoluzione del processo di apprendimento. Con questa didattica di tipo cooperativo i modelli cognitivi riescono a evolvere perché il bambino può confrontare le proprie scritture non solo con l’adulto ma anche con i coetanei.
All’interno di un gruppo eterogeneo per competenze ho creato spesso piccolisottogruppi per stimolare discussioni partendo dai diversi modi in cui una parola è stata scritta. Questa pratica è molto funzionale alla totalità del gruppo, dove i più esperti accrescono la loro competenza e sviluppano le capacità argomentative fornendo spiegazioni ai compagni, mentre gli errori di quei bambini ancora “lontani” dal codice convenzionale non sono da considerarsi negativi perché fungono da stimolo al confronto e costituiscono un prezioso indicatore del passaggio a evoluzioni successive.
Altro punto fondamentale messo in atto all’interno della classe è la conversazione per rafforzare gli scambi comunicativi. La proposta ripetuta quotidianamente favorisce in modo naturale la partecipazione di tutti i membri del gruppo, anche di quelli più schivi. Va anche detto, tuttavia, che la presenza nel gruppo classe di gravi handicap o di bambini con problemi di concentrazione e iperattività complica un po’ le cose e spesso risulta difficile trovare il giusto equilibrio per un confronto utile. L’attività svolta nell’”angolo morbido” è propedeutica e stimola la ricerca dell’argomento da sviluppare poi nel lavoro individuale. Il testo libero proposto da Freinet, inteso come racconto in forma orale o scritta dei propri vissuti, è stato quindi trasformato in un approccio legato alla narrazione e al racconto. Questo perché i vissuti dei bambini, che abitano in un quartiere degradato come quello in cui è inserita la mia scuola, sono spesso troppo deprivati per poter dare adito a discussioni collettive. La maggior parte di loro trascorre il tempo libero a casa con i videogiochi o presso il vicino centro commerciale. Questo tuttavia non “classifica” i loro vissuti e le loro esperienze come meno ricchi o degni di scarsa considerazione, anche se suggerisce una pratica di mediazione per farli emergere. La strategia che ho adottato è quella della narrazione, con la quale – a partire dalla lettura di un libro – stimolo la discussione chiedendo poi ai bambini di inventare storie o di pensare a un possibile finale alternativo a quello del racconto appena letto. O, ancora meglio, di raccontare qualcosa di personale immedesimandosi nei protagonisti del libro. L’idea di fondo è che, attraverso la creazione di racconti di fantasia, i bambini riescano a verbalizzare, talvolta in maniera inconscia, i propri vissuti, i timori, le gioie e i desideri.
Inoltre, la pratica quotidiana dell’ascolto esercita un ruolo molto importante perché consente di familiarizzare con il
linguaggio scritto, che è un codice autonomo rispetto a quello orale. I testi inizialmente sono proposti in stampato maiuscolo, un carattere che si riscontra spesso nelle scritture spontanee dei bambini prescolari e che permette di accostare il percorso di scrittura. Questo è anche il carattere che viene utilizzato alla lavagna e nella decifrazione dei loro elaborati. Ognuno, una volta pronto, potrà scegliere di utilizzare un altro carattere di scrittura, mentre per la lettura alcuni affrontano lo stampato minuscolo in modo naturale anche molto precocemente.La presenza in classe della biblioteca – nel mio caso plurilingue – offre una scelta molto ampia e stimolante di materiale di lettura e la possibilità di sfogliare i libri, un gesto sempre più raro e spesso assente nel loro ambito familiare. Questo, come tutte le altre “opportunità visive” presenti in aula – cartelloni murali, alfabeti in varie lingue, oggetti targati, materiale cartaceo scritto di vario tipo – sollecita la curiosità verso la lingua scritta e sviluppa la motivazione a porsi domande e a indagare sulle funzioni della scrittura.
Per concludere, una riflessione fatta in quinta da una mia ex alunna, oggi alla scuola secondaria di primo grado, su quando all’inizio della prima gli sforzi erano tutti concentrati per imparare a scrivere: «Sono passati mesi e giorni e ho imparato a scrivere. Prima scrivevo in “ostrogoto”, chiamavamo così in modo simpatico le nostre parole scritte con tante lettere, e questa scrittura era incomprensibile ai grandi. Però a me piaceva perché l’avevo inventato io...».

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* maestra di una classe seconda in una scuola di Genova
Questo articolo è stato pubblicato anche su Professione insegnante n. 2 ottobre 2014

martedì 28 ottobre 2014

contributi delle provincie alle scuole superiori...in riduzione, con un aumento del carico per le famiglie

molte provincie stanno tagliando i contributi per le scuole superiori...con il risultato di un aumento del carico per le famiglie....

http://www.disal.it/Objects/Pagina.asp?ID=19709 [9] 


VERONA

http://www.larena.it/stories/Home/799528_conferma_alle_scuole_niente_fondi_per_le_spese/
[10] 


DOLO

http://nuovavenezia.gelocal.it/cronaca/2014/09/11/news/la-provincia-taglia-i-fondi-alle-scuole-saliranno-le-rette-1.9917018
[11]  

TARANTO

http://www.corriereditaranto.it/scuole-niente-soldi-dalla-provincia-come-fare/
[12] 

BIELLA

http://torino.repubblica.it/cronaca/2014/09/18/news/provincia_in_rosso_a_biella_niente_soldi_per_le_scuole-96025268/
[13] 

CUNEO

http://www.targatocn.it/2014/07/21/leggi-notizia/argomenti/scuole-e-corsi/articolo/la-provincia-non-ha-i-soldi-per-garantire-acqua-e-luce-nelle-scuole-superiori-mentre-il-governo-stan.html
[14]

http://www.targatocn.it/2014/07/18/sommario/sportello-del-consumatore/leggi-notizia/argomenti/scuole-e-corsi/articolo/non-garantiamo-le-spese-di-riscaldamento-ed-energia-nelle-scuole-la-provincia-scrive-ai-dirigenti.html

scuola e calligrafia

fonte: la scuola di mafalda

scrivere a mano? (di marco politi)

Le scuole italiane hanno aperto le porte da una settimana o poco più, e mi sorge una domanda: vi s’insegna ancora la calligrafia? Quanto tempo dedicano oggi i maestri al miglioramento la scrittura dei bambini? Ma poi, in un mondo dominato dalla scrittura delle macchine digitali (computer, iPad, smartphone, iPhone, ecc.), quanto serve saper scrivere a mano?
Gunnlaugur S. E. Briem, noto type designer e scrittore d’origine islandese, racconta che in una ricerca dell’Università dell’Indiana, condotta dal professor Karin Harman James, è stato seguito un gruppo di bambini tra i tre e i cinque anni. Alcuni avevano imparato le lettere dell’alfabeto digitando sulla tastiera, altri scrivendole a mano. Quest’ultimi ricordavano meglio l’orientamento delle lettere, per esempio distinguendo con sicurezza la p da dalla q. Inoltre, la risonanza magnetica mostrava che i bambini che avevano appreso l’alfabeto scrivendo a mano, avevano un’attività cerebrale simile a quella di un adulto; riconoscevano con più esattezza le lettere, cosa che è molto importante per “vedere” in anticipo le lettere e sviluppare quindi una velocità di lettura maggiore. Scrivere una lettera dell’alfabeto è meglio che guardarla, udirla o digitarla.
Nell’introduzione al volume Scrittura corsiva. Un nuovo modello per la scuola primaria della calligrafa e docente Monica Dengo, il type designer riferisce di altre ricerche nelle università americane intorno alle capacità che attiva la scrittura a mano rispetto all’uso della tastiera, o nell’attività di calcolo. C’è da dire che scrivere a mano non è per nulla una cosa semplice per il bambino. Prima che sia in grado di farlo, deve raggiungere la raffinatezza del movimento del braccio e della mano. Tra l’omero e il pollice ci sono infatti 29 ossa che devono essere tutte coordinate. Il che accade in modo completo solo dopo i cinque anni, quando il bambino accresce le proprie capacità motorie. È allora che si può imparare a scrivere, o almeno cimentarsi nel farlo.
La scrittura a mano è la combinazione di vari aspetti tra loro connessi: linguistico, la lettera come simbolo che riguarda il suono e la conseguente lettura; grafico, la lettera come forma sulla superficie su cui si scrive; psicologico, la lettera come risultato del modo di percepire e di esprimere se stessi. Così scrivono Francesco Ascoli e Giovanni De Faccio in un libro, Scrivere meglio(Nuovi Equilibri, 1998), uscito anni fa, ma che è ancora un’ottima introduzione alla storia, alle metodologie e alla didattica della scrittura a mano: la calligrafia. Questo termine, tornato di moda da qualche anno – ci sono sempre più corsi rivolti agli adulti per imparare l’arte calligrafica – è scomparso nella cultura italiana all’epoca della Riforma Gentile nel 1923, quando fu sostituito con l’espressione “bella scrittura”, per quanto in quel periodo, grazie al manuale di Alessandro Marcucci, La Bella scrittura nelle scuole elementari, fu introdotta una buona metodologia per insegnare la scrittura a mano ai bambini.
Dal 1985 non c’è più l’obbligo di questo insegnamento, mentre la calligrafia, che si era mantenuta nelle scuole di avviamento professionale, è stata abolita nel 1970. L’effetto congiunto di queste due scelte è la diffusione delle “brutte scritture”, e nonostante le lamentazioni e le geremiadi rituali di insegnanti e pedagogisti, non si è più fatto nulla per migliorare la calligrafia dei bambini, salvo rare eccezioni di maestri e maestre che dedicano parte del loro tempo a questa istruzione pratica (oggi bisogna saper fare tante e troppe cose e i poveri maestri sono subissati da materie nuove, dall’inglese all’informatica).
Del resto, dalle prime scuole elementari fino all’università si scrive ancora a mano, e gli insegnanti sanno per esperienza la difficoltà che incontrano nel leggere temi o riassunti mal scritti, simili alle proverbiali scritture dei medici, i quali, a loro volta, oggi non scrivono quasi più a mano, ma usano i computer dei sistemi informatici regionali per ricette e diagnosi. Naturalmente si tratta di una delle numerose schizofrenie della nostra società contemporanea, dal momento che nelle cartolibrerie, nelle librerie tradizionali o nelle grandi catene commerciali del libro, sono ben presenti espositori con quaderni e block notes, e la scrittura a mano è coltivata sui taccuini neri dei Moleskine, elemento cool, alla moda, da Chatwin in poi.
Lo scrittore che prende appunti sul suo quadernetto, scrivendo naturalmente a mano, è diventato quasi un brand da imitare. La maggior parte delle persone che sono andate a scuola tra gli anni Cinquanta e Ottanta del XX secolo ha imparato a scrivere seguendo nel corsivo lo stile inglese, che è ancora la regina delle scritture calligrafiche, sia nella versione pendente che in quella dritta, modello ottocentesco dominante nella scuola italiana. Come si sa il corsivo è la scrittura più veloce e scorrevole per scrivere manualmente, grazie al fatto che la si esegue sollevando poche volte la penna dal foglio.
Secondo Monica Dengo, calligrafa e docente, dal punto di vista storico il corsivo è la forma più evoluta, quella che consente lo sviluppo del ritmo e del flusso naturale dei pensieri dalla mente al foglio, del rapporto tra corpo, gesto e segno. In un testo del 1973, Variazioni sulla scrittura (Einaudi, 1999) rimasto a lungo inedito, Roland Barthes ricorda che l’insegnamento della scrittura a mano è fondamentale per la liberazione del corpo e l’espressione della personalità.
Nei vecchi metodi di insegnamento, ad esempio la pratica di tracciare aste prima di cominciare a scrivere le lettere, era dettato da una forma di rigidità. Non a caso Maria Montessori raccomandava di cominciare piuttosto dalle lettere rotonde. Il semiologo francese ricorda che la scrittura, “per il fatto di essere un prolungamento del corpo, comporta immancabilmente un’etica”. Nell’Ottocento si decantava il vantaggio della scrittura dritta che, come un’ortopedia sociale, obbligava il bambino a tenere il corpo eretto, in posizione frontale, con le braccia sul tavolo, i due occhi a eguale distanza dalla carta. La rettitudine fisica come equivalente di quella morale. Barthes propende per la scrittura leggermente inclinata; per lui il movimento laterale della mano diventa più facile e rapido.
Nel suo bellissimo scritto, la cui prima edizione italiana è apparsa anni fa a cura di Giuseppe Zuccarino (Graphos), ci ricorda che in Occidente, a seguito delle costrizioni ebraico-cristiane il valore supremo è sempre la libertà, mentre in Oriente si pratica un apprendimento meno libero. Sia nell’aspetto filogenetico sia in quello ontogenetico, la scrittura appare strettamente legata al disegno: il bambino riesce a disegnare dai due anni, ben prima di scrivere, ed è da questa pratica che si passa alla scrittura vera e propria. Il discorso sul rapporto tra corpo e scrittura, uno dei temi del saggio di Barthes, è davvero complesso, e dunque molto interessante. Come sanno bene le maestre e i maestri le questioni del piacere, del godimento e del desiderio sono fondamentali nell’insegnamento.
La scrittura a mano attiva zone della nostra personalità importanti e decisive. La scrittura a mano oggi è reputata da molti lenta rispetto alla velocità della mente, alla rapidità del pensiero che i nuovi media e le tecnologie informatiche tendono a sviluppare prima di tutto come un valore oltre che come esito effettivo. Senza dubbio scrivere a mano è una pratica lenta, simile al camminare, ma proprio per questo promuove aspetti della psiche e della personalità individuale obliate, se non proprio cancellate, da smartphone e computer. C’è probabilmente un maggior equilibrio e armonia tra mente e corpo nell’uso della penna o del pennarello, per non dire nell’uso di stilografica o Rapidograph, oggetti ritenuti obsoleti.
Monica Dengo propone di superare l’uso del corsivo inglese, abbandonato nel resto dell’Europa da tempo, a favore del corsivo italico [cfr. anche il sito http://scritturacorsiva.it/]. Nel metodo calligrafico inglese il trattino delle lettere minuscole come a, e, i, u duplica quello in uscita della lettera precedente; funge da abbellimento, tuttavia rende l’apprendimento del corsivo più difficile per il bambino. Chi ha imparato questo metodo nella scuola del passato ricorda la difficoltà di scrivere la H che somiglia a una I maiuscola unita alla L, aggiungendo un trattino verticale per non confondere questa lettera con l’articolo determinativo Il. La calligrafa reputa che gli svolazzi siano difficili da memorizzare e non necessari. Il suo modello punta alla semplicità e sostituisce le maiuscole del corsivo inglese con le maiuscole (H, M, N, R, ecc.), e abolisce gli anelli tormento della mia infanzia.
Certo, per chi come me ha appreso la scrittura a mano seguendo il modello del corsivo inglese, con i suoi svolazzi, i groppi, le giravolte della mano, è difficile adattarsi ora al corsivo italico. Per ragioni affettive, ma anche per quella forza d’inerzia che è fondamentale negli individui: ho imparato a fare così, ed è così. Posso testimoniare che quell’apprendimento calligrafico fu faticoso e difficile: tanto che dovetti riempire quaderni e quaderni di svolazzi, che mi risultavano ingrati e penosi con pennini metallici che aravano i fogli di carta, invece di accarezzarli (ah, la calligrafia del pennello orientale!). Così com’era difficile collegare con trattini le lettere seguenti. E questa tecnica scrittoria, che chiedeva a noi piccini qualità da esperti calligrafi, mi ha fatto guardare con perplessità, e spesso con un po’ d’orrore, le pratiche calligrafiche delle mie figlie nel corso degli anni della scuola elementare.
Bisogna scrivere chiaro? Scrivere chiaro significa pensare “chiaro”, cioè bene, correttamente? Oppure anche io, figlio della ortopedia scrittoria del passato, sono schiavo di una visione oppressiva dello scrivere? Imparare a scrivere, come sostiene Narciso Silvestri, maestro di colore e di geometria, significa sperimentare il mondo delle turbe grafiche: tremolio, atarassia, pause, corea; è attraversare il vasto mare dell’esperienza dell’agitazione e turbamento. Forse noi adulti ci siamo dimenticati cosa ha significato imparare a scrivere a mano, quali emozioni e sconcerti comportava quell’atto fondamentale per poter accedere al mondo dei “grandi”.
Per dar forma ai propri pensieri, dopo aver abbandonato lo spazio libero del disegno infantile, verso i cinque o sei anni, siamo tutti passati attraverso il continente agitato e concitato della scrittura come comunicazione di sé, dei propri pensieri e sentimenti. Roland Barthes in quello straordinario saggio ricorda che esistono due sottofondi della scrittura su cui gli educatori dovrebbero sempre riflettere: “da un lato, la sessualità (tutti sanno che arrivando alla pubertà i bambini cambiano scrittura come cambiano voce) e dall’altro il ritmo (l’attività cadenzata sarebbe inscritta nella parte più arcaica delle nostre strutture encefaliche; e gli antropologi ci insegnano che, vari millenni prima della nascita della scrittura vera e propria – attestata – gli uomini hanno prodotto delle iscrizioni astratte e ritmate)”.
Ogni volta che s’impara a scrivere a mano è come ricapitolare in se stessi quel percorso durato un lungo lasso di tempo, ritrovare se stessi nella calligrafia, come nel disegno ritmico, è anche incontrare la propria identità. Meglio: nuotare sino alla riga, come ha detto un bambino con un bellissimo lapsus. Per questo mi auguro che le maestre e i maestri dedichino più tempo alla calligrafia, antica arte che non merita certo di scomparire.
(Marco Politi, doppiozero.com, 18 settembre 2014)

Marco Belpoliti è scrittore e saggista. Tra i suoi ultimi libri: Il corpo del Capo (Guanda 2009), Senza vergogna (Guanda 2009), Pasolini in salsa piccante (Guanda 2010); La canottiera di Bossi (Guanda, 2012); Camera straniera. Alberto Giacometti e lo spazio (Johan & Levi, 2012); Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate Rosse (Guanda, 2012); Il segreto di Goya (Johan & Levi, 2013); L'età dell'estremismo (Guanda, 2014). Dirige con Elio Grazioli la collana Riga, collabora a La Stampa e L'Espresso, insegna all'Università di Bergamo