mercoledì 28 maggio 2014

scuola serale

fonte: vivalascuola

Vivalascuola. I nuovi serali: una scuola al 70%



Dopo 7 anni di annunci, rimandi, ripensamenti, sperimentazioni, a settembre 2014 dovrebbe partire la “riforma” dell’istruzione degli adulti che istituisce i CPIA. La logica è sempre la stessa: “riformare” per, in nome dell’efficienza, tagliare il servizio. Il quadro orario si attesta sulle 23, 24 ore settimanali: alcune materie vengono drasticamente ridimensionate (italiano, matematica, le lingue), altre quasi scompaiono (storia, diritto). L’orario viene ridotto al 70% dei corrispondenti corsi diurni e la definizione dell’organico viene subordinata al vincolo di 10 docenti per 160 studenti. Lo Stato, tagliando un 30% del curriculum, prevede di tagliare anche un 30% del personale. D’altra parte, nel 2007, la proposta di istituzione dei CPIA si trovava, non a caso, al comma 632 della Legge Finanziaria. Non si tratta di difendere una manciata di ore, anche quando rappresentano una cattedra in più o in meno. È una logica culturale quella per cui vale la pena di lottare, in nome di coloro che non hanno la voce e gli strumenti per farlo.
..Indice
(Clicca sul titolo per andare subito all’articolo)
Marina Polacco, Una riforma fantasma. A proposito delle nuove norme sull’istruzione per gli adulti
Giovanna Lo Presti, I nuovi serali della “riforma“: una scuola al 70%
Centri istruzione adulti, MIUR emana circolare dell’avvio con linee guida e quadri orario aggiornati
Roberto Urbano, Il nuovo sistema per l’Istruzione degli Adulti. Un Bel Paese per ignoranti

martedì 27 maggio 2014

sull'anticipo scolastico

FONTE: comune.info

Che i bambini restino bambini


 112
di Rosaria Gasparro*
Lasciamo che i bambini restino bambini, senza accelerare la vita, senza forzarla. Ogni anticipo è un distacco da una situazione naturale di bellezza e di gioia. Perché questo è il gioco, il modo più felice di stare al mondo. Di assicurarsi benessere e salute. Di costruire relazioni, di organizzare il tempo e lo spazio. Di “regolarsi” insieme agli altri. Ogni strappo al tempo opportuno è un rata che pagheremo caro e con sufficiente anticipo.
Ci bruciamo l’infanzia per andare dove? In analisi precoce, in trattamento riabilitativo di uno dei tanti disturbi codificati? Basterebbe un solo ormone di ansia in un bambino “precocizzato”a farci dire di no all’anticipo scolastico.
Non si tratta d’imparare l’alfabeto. Lo si può fare anche prima dei cinque anni. Si tratta della capacità di ascolto e di attenzione, in una situazione strutturata da tempi e da regole, da una campanella che suona per tutti, e continuerà così per tutta la vita.
Si tratta di interagire con adulti e coetanei diversi, quando ancora ci si ritiene al centro del mondo.
Si tratta dell’abitudine alla fatica, perché il compito è a tutti gli effetti un lavoro vero e proprio, un impegno che richiede diverse abilità.
Se ci arriviamo con i tempi giusti, saremo meglio attrezzati per affrontarne le difficoltà. Per avere una percezione positiva di ciò che siamo e sentirci motivati e mossi dal desiderio.
Per evitare fallimenti, disagi e abbandoni, serve un’altra idea di tempo e di persona. Serve un altro coraggio: quello che, per essere felici, a scuola bisogna iniziare un anno dopo. Con tutta la fiducia di base di cui riusciremo a far provvista nei primi sette anni di vita, si rallenta e si allunga anche l’esistenza, e forse sapremo gustarla e affrontarla meglio. Senza l’ansia e il mito tossico del “prima”: come partenza e come arrivo. E allora ci potremo godere finalmente il paesaggio del “durante”.

* Maestra di una scuola pubblica. Altri suoi articoli sono qui.



Meglio la Scuola dell’Infanzia obbligatoria piuttosto che l’anticipo scolastico

23 maggio 2014 alle ore 13.02

Ogni 10 anni ritorna il fantasma dell’anticipo scolastico a 5 anni obbligatorio. Purtroppo la nuova Ministra dell’Istruzione Stefania Giannini non si è sottratta alla regola, nonostante che la stessa sia sempre stata bocciata sia per motivi organizzativi sindacali, sia per motivi “con più ragioni” di natura psicoevolutiva. Torno pertanto a ribadire ciò che ebbi a scrivere tanti anni fa.
L’idea giusta sarebbe rendere obbligatoria la Scuola dell’Infanzia piuttosto che abolirne un anno in funzione della Scuola Primaria.
I tre anni di Scuola dell’infanzia rappresentano un momento fondamentale nella crescita dei bambini e delle bambine dove trasformano la loro sensorialità in una capacità specifica di apprendimento e dove strutturano quell’attaccamento sociale che permette loro di vivere con gli altri nella reciprocità e nella creatività.
Va poi sottolineato che i bambini a 5 anni non hanno ancora sviluppato quel tipo di pensiero, che Jean Piaget definirebbe operatorio concreto, che consente di attivare tutte le competenze necessarie al leggere, allo scrivere, e alle operazioni matematiche. Si finirebbe con l’aumentare ulteriormente l’abbandono scolastico che ci vede ai primi posti nell’area OXE, in quanto i ritardi accumulati nel primo anno della primaria anticipata sarebbero ben difficili da recuperare.
Si tratta pertanto di un inutile stress per i bambini catapultati precocemente nel mondo delle verifiche e dei voti di cui francamente non si sente alcuna necessità.


Daniele Novara, pedagogista


daniele.novara@cppp.it

domenica 25 maggio 2014

i costi pubblici della scuola di tutti e quelli della scuola privata

I costi pubblici della scuola di tutti e quelli della scuola privata

fonte: uaar
 
 
Sono passati dodici anni dalla legge 62/2000, voluta dall’allora premier Massimo D’Alema e dal ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer. Con quel provvedimento clericale, le scuole private – a maggioranza cattoliche – ottennero la parità scolastica ed entrarono a far parte di un unico sistema di “scuola pubblica”. E cominciarono immediatamente a spacciarsi per “scuola pubblica”, minimizzando il fatto che chi si iscrive deve aderire al loro “progetto educativo” (quasi sempre cattolicista) e occultando pressoché completamente la propria natura privata.
Di pubblico, nella loro attività, ci sono quasi soltanto i cospicui contributi che ricevono. Contributi che gravano su tutta la comunità, ma che sono destinati a finanziare progetti di parte. Ciononostante, con sempre maggior frequenza i sostenitori delle scuole private si lamentano che tali fondi non bastano, e che bisogna aumentarli. L’aumento che chiedono deve per di più essere consistente, perché l’amministrazione pubblica “ha tanto da risparmiare, finanziando le scuole cattoliche”. E diffondono inchieste che sosterrebbero tale tesi.
Ma è tutto oro quello che luccica?

Finanziare la scuola privata è un risparmio per l’amministrazione pubblica?

In prima fila a sostenere la tesi del risparmio c’è il movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione
In prima fila a sostenere la tesi del risparmio c’è il movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione. In Lombardia, dove negli ultimi vent’anni si è fatto regime, in nome della sussidiarietà ha applicato estesamente il “dogma” del sostegno economico alle scuole private. E proprio sul sito ciellino del Sussidiario, a febbraio, è stata quantificata in sei miliardi la somma che lo Stato risparmia ogni anno devolvendo circa seicento milioni alle scuole private. La stima era stata effettuata da Maria Grazia Colombo, presidente dell’Agesc (Associazione GEnitori Scuole Cattoliche), secondo la quale “lo Stato per ogni studente della scuola statale paga 5.200 euro l’anno contro i 530 euro per ogni studente della scuola paritaria”.
Tale stima saltava fuori proprio nel momento in cui il governo cominciava a minacciare (assai blandamente, come poi si è visto) di imporre l’Imu anche sugli immobili di proprietà ecclesiastica utilizzati per impartire l’istruzione cattolica a pagamento. L’Agesc però ci ha dato dentro, e il mese dopo diffondeva un dossier (prontamente enfatizzato dal sussidiato quotidiano dei vescovi Avvenire) con l’intento di confermare la veridicità delle affermazioni della sua presidente. Il dossier è stato poi aggiornato a ottobre, presentando un semplice riepilogo. Un altro dossier è stato a sua volta presentato a settembre dal sussidiato Messaggero di Sant’Antonio, come rilanciato dall’altrettanto sussidiato settimanale Tempi. Le basi di calcolo sono sempre diverse ma il totale si aggira sempre sui sei miliardi. Una cifra curiosamente simile ai Costi della Chiesa calcolati dall’Uaar.
A maggio era stato presentato su Avvenire un altro dossier ancora, questa volta circoscritto alla Regione Lombardia. Il risparmio – nel solo regno di Cielle - ammonterebbe a un miliardo e trecentomila euro. Il calcolo è stato effettuato da Giuseppe Colosio: “non un membro della Chiesa, ma il «rappresentante» del ministero dell’Istruzione in questo territorio da sempre motore del Paese”. Un rappresentante, scrive la voce dei vescovi con tono trionfalistico, che “sconfessa quanti accusano tali istituti di sottrarre risorse alla comunità civile”.

Un ragionamento sbagliato

In realtà Colosio, nominato direttore dell’ufficio scolastico dall’allora ministro dell’istruzione, la clericale Mariastella Gelmini, è tutto fuorché un uomo imparziale: insegna all’Università Cattolica e collabora attivamente con la Compagnia delle Opere. In poche parole, è solo l’ennesimo ingranaggio del kombinat clerico-imprenditoriale lombardo.
la cifre presentate dal mondo cattolico sono incomplete, perché si limitano al solo contributo annuo statale
E tuttavia non è il fatto che le argomentazioni provengano soltanto da uomini di parte a inficiare la tesi del risparmio. Innanzitutto, la cifre presentate dal mondo cattolico sono incomplete, perché si limitano al solo contributo annuo statale, dimenticando quelli provenienti da altre amministrazioni pubbliche. Che, come ha mostrato l’Uaar nell’inchiesta I Costi della Chiesa, sono ingenti e superiori al contributo statale stesso: almeno ottocento milioni di euro. A questa cifra occorre poi aggiungere l’imposta sugli edifici delle scuole cattoliche che, com’è per l’appunto emerso quest’anno in seguito alle loro lamentele, gli enti ecclesiastici risolutamente non pagano: almeno altri duecento milioni. Abbiamo così una cifra inferiore di un miliardo, che si potrebbe ulteriormente ridurre se calcolassimo il risparmio che si otterebbe eliminando l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali: un altro miliardo e mezzo ogni anno.
Il vizio nel ragionamento cattolico sta tuttavia ancora più a monte. Perché se, per ipotesi, il contributo pubblico alle scuole paritarie cattoliche si riducesse a zero, il risparmio per lo Stato – calcolato come lo calcola il mondo cattolico – aumenterebbe ancor di più: di circa un miliardo e mezzo.
Non è infatti dimostrato che, qualora le amministrazioni pubbliche cessassero i loro munifici versamenti alle scuole paritarie cattoliche, i loro studenti tornerebbero in massa alle vere scuole pubbliche. In fin dei conti, quando alle scuole private non finiva un solo euro, tali scuole esistevano e sopravvivevano ugualmente grazie alla rette e agli sponsor privati, e da quando ci sono i contributi pubblici l’aumento degli studenti privati c’è sì stato, ma in misura limitata (+10% spalmato su sei anni) e senza intaccare il numero di studenti della scuole statali. I genitori che iscrivono i figli alle scuole cattoliche non lo fanno per ragioni di convenienza economica, viste le profumatissime rette che devono pagare (e che non risultano calate da quando esistono i sussidi pubblici), ma per preferenze educative, per avere un più rigido controllo, per garantire ai figli maggiori possibilità di promozione, per scelte legate al censo o al ceto sociale o per evitare che si “contaminino” con le idee che circolano in scuole ben più pluraliste.
Non solo: ammesso e non concesso che tali studenti tornino in massa alle vere scuole pubbliche, l’impatto sarebbe minimo. Perché gran parte dei costi pubblici sono fissi (stipendi degli insegnanti e mantenimento degli edifici) e non variabili. Qualche studente in più ripartito razionalmente non farebbe aumentare in maniera significativa i costi. Si tratta di semplici economie di scala, e la “scala” adeguata per ottenere tali economie ce l’ha soltanto la scuola statale.
Soltanto cancellando la scuola pubblica il ragionamento tutto economicista del mondo cattolico fila
Come si vede, la tesi cattolica si riduce a un concetto molto semplice: se lo Stato non investe nella scuola, risparmia. Elementare, Watson. Otterrebbe lo stesso esternalizzando tutti gli uffici pubblici in Albania, o eliminando del tutto i trasporti pubblici: tanto esistono le auto private, no? Soltanto cancellando la scuola pubblica il ragionamento tutto economicista del mondo cattolico fila. E sarebbe perfettamente coerente dal punto di vista dottrinale: era esattamente quanto voleva anche il beato Pio IX, contrario all’”istruzzione” (con due zeta), la cui obbligatorietà definiva “un flagello”.
Sostenere tesi del genere è ovviamente lecito, e i cattolici non sono gli unici a farlo: in prima fila vi sono infatti gli ultra-liberisti. I cattolici sono ultra-liberisti?
paritaria

Contro la scuola privata anche molte ragioni non economiche

Curioso che ad argomentare in modo così “materiale” siano proprio i sostenitori del primato “spirituale”. Se non esistessero gli ospedali pubblici, non tutti potrebbero accedere ai servizi sanitari (come per esempio le interruzioni volontarie di gravidanza). Le discriminazioni aumenterebbero, anziché ridursi. Se ciò non accade, è proprio perché la nostra è (ancora) una democrazia. Un sistema che in Europa solo lo Stato della Città del Vaticano, che concentra tutto il potere nelle mani di una sola persona, rifiuta esplicitamente di applicare.
Lo strano argomentare cattolico non finisce qui. La Chiesa  rivendica il valore coesivo della religione, ma non si premura di spiegare quale coesione vi sarebbe in un sistema scolastico diviso in tante comunità quante sono le confessioni religiose. Si avrebbe sicuramente una coesione (forzosa) all’interno di tali ghetti identitari, ma la società esterna, più che un gruppo coeso, ricorderebbe il Libano.
La Chiesa rivendica peraltro anche il diritto alla libertà religiosa. Lo fa senza sosta, ma viene spesso il sospetto che pensi esclusivamente alla propria, di libertà. Cosa fare in quei Comuni dove, “grazie” all’applicazione del principio di sussidiarietà, l’unica scuola disponibile è una paritaria caratterizzata da un progetto educativo esplicitamente cattolico? Dove finisce, in questi casi — che, in piccoli paesi,  sono già adesso realtà — la libertà di coscienza e il tanto sbandierato diritto dei genitori all’educazione dei propri figli?
la qualità dell’insegnamento privato è scarsa
Non sono, queste, le uniche sostanziali assenze nel discorso cattolico. Un silenzio tombale è per esempio riservato alla qualità dell’insegnamento. Eppure tutti gli studi effettuati, siano essi opera di organismi internazionali (l’Ocse), realtà indipendenti (la Fondazione Agnelli) o lo stesso ministero dell’istruzione, sono convergenti: la qualità dell’insegnamento privato è scarsa, assai più scarsa di quella impartita nella scuola di tutti.
Le cause di questo spread qualitativo sono del resto note. Gli insegnanti delle scuole private sono sottopagati: anche perché viene fatta loro tintinnare, in contropartita, l’acquisizione di un punteggio utile a scalare le graduatorie pubbliche. Secondo l’Istat, una fetta consistente di tali docenti lavora in nero. Molti non hanno neppure l’abilitazione prevista dalla legge, e non sono addirittura mancate le segnalazioni circa l’utilizzo di obiettori di coscienza.
È noto inoltre come le scuole private siano spesso la soluzione di ripiego per gli studenti bocciati in quelle statali, e le classifiche dei “diplomifici” (cfr. Corriere della Sera e Messaggero) confermano come le scuole cattoliche siano “ripieghi” assai seguiti. Difficile in ogni caso non essere generosi verso clienti chi pagano rette da capogiro: non stupiscono percentuali del 100% di promossi, come al liceo privato di cui è preside la fervente cattolica Elena Ugolini, nominata sottosegretario all’Istruzione dal premier Monti.
La mancanza di inclusività della scuola privata è infine confermata anche dai numerosi esempi di diniego di accesso ai disabili, come hanno mostrato le inchieste delle Iene o, per restare sull’attuale, il caso della bambina di due anni cacciata perché sorda. Né va meglio con bambini e ragazzi stranieri, la cui presenza nella scuola paritaria è minoritaria.

La scuola di tutti ha molti limiti, ma continua a essere la scelta migliore

Sia chiaro: non stiamo difendendo gli sprechi presenti nel sistema statale. Che persistono nonostante gli interventi degli ultimi anni, forse perché si è preferito tagliare con l’accetta la didattica, anziché eliminare burocrazie e inefficienze. Tuttavia, come abbiamo mostrato, spostare fondi dalla scuola di tutti a quella privata costituisce uno spreco assai maggiore. Nonostante decenni di ministri clericali abbiano fatto di tutto per picconare l’istruzione pubblica, e nonostante i partiti (Pd in testa) sostengano ormai “tutti insieme appassionatamente” la scuola privata cattolica, quest’ultima è ancora molto lontana dal rappresentare la migliore soluzione per la maggioranza dei cittadini.
Le scuole private non potranno mai, per definizione, essere la scuola di tutti. Rappresenteranno invece sempre progetti educativi di parte: la cui esistenza è garantita dalla Costituzione, purché “senza oneri per lo Stato”. I cittadini che lo vogliono sono liberi di destinare soldi a istituti meno competitivi di quelli statali. Ma non chiedano soldi alle tasche, sempre più vuote, di tutti gli altri.

sabato 17 maggio 2014

quanto costa mandare un figlio a scuola


fonte: save the children

Libri, corredo scolastico, spostamenti e mense: le spese che deve sostenere una famiglia per dare un'istruzione al proprio figlio sono altissime. E pensare che l'istruzione è un diritto.

   



Quanto costa mandare un figlio a scuola.
L’istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita
Costituzione italiana, art. 34
Istruzione e studio sono diritti che alle famiglie italiane costano caro e amaro. Costano caro, perché durante gli anni della scuola i genitori sono costretti a sborsare somme di denaro che possono mettere in crisi bilanci familiari resi precari dalla crisi economica (secondo l’Istat le persone residenti in Italia a rischio di povertà ed esclusione sociale sono il 29,9% contro il 24,8% della media europea). Costano amaro anni dopo, quando il giovane, terminato il suo ciclo di studi, deve immettersi nel mercato del lavoro scontrandosi con disoccupazione e precarietà. Ma lo studio – come si osserva troppo di rado – svolge un ruolo sociale e politico al di là dell’accesso al mondo professionale, di cui pure dovrebbe fornire chiavi e mappa. Per questo motivo il diritto all’istruzione e quello allo studio (il primo riferito alla scuola dell’obbligo, il secondo a superiori ed università) sono contemplati nella nostra Carta costituzionale all’articolo 34:
La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.
Cosa resta della fruibilità delle scuole e delle università italiane? La costruzione – lenta, inefficiente, parziale – di tutte quelle premesse necessarie a rendere l’istruzione accessibile potrebbe essere disfatta dalle conseguenze paralizzanti della crisi. Libri, trasporti, corredo scolastico, mensa e tasse potrebbero diventare un ostacolo – e per molti già lo sono – all’esercizio sancito dall’articolo 34 della Costituzione.
Rette, tasse e contributi
Libri
Corredo scolastico
Trasporti
Mensa
Esclusione dei genitori dal mondo del lavoro

Rette, tasse e contributi


300 € al mese, tanto costa iscrivere un bimbo ad un asilo nido comunale
Oss. periodico sulla fiscalità
I costi più salati, come ricordato dall’ “Osservatorio periodico sulla fiscalità” della Uil e ripreso da Linkiesta, sono all’inizio e alla fine del proprio ciclo di apprendimento. La copertura degli asili nido che dovrebbe essere secondo gli obiettivi europei del 33% (nella fascia di età 0-2 anni), ma arriva a stento al 26,5% con l’Emilia Romagna,  mentre la Calabria, con il 2,5%, dista quasi 31 punti percentuali dal target europeo. Una “rarità” che incide ai suoi costi: un asilo nido comunale costa in media di 300 euro al mese per bambino (con punte di più di 500 euro nel Nord). L’arrivo alla scuola primaria e secondarie comporta per le famiglie un significativo alleggerimento dei costi di iscrizione, poiché non bisogna pagare nessuna tassa in virtù dell’obbligo scolastico fino ai sedici anni.
24.000 € per un quinquennio di università tra tasse e libri
Oss. periodico sulla fiscalità
Per gli ultimi due anni di quarta e quinta bisogna pagare i tributi di iscrizione, frequenza, esame e diploma: circa 65 euro in due anni. Tuttavia alcune scuole chiedono il contributo libero – solitamente cento euro – sul proprio conto corrente ai genitori, che non sempre sono a conoscenza della facoltatività del pagamento. Il vero onere, tuttavia, viene da tutti i costi correlati, quali libri e corredo scolastico. Gli ultimi anni di istruzione tornano a diventare cari, con costi universitari che, pur cambiando per fascia di reddito, città e facoltà, hanno in comune rette semestrali, tasse regionali e libri la cui spesa complessiva ha un valore medio di 24.000 € in cinque anni per studente.

Libri


1.550 euro è il costo complessivo dei libri di cinque anni di liceo classico
Miur
Ogni anno il Ministero dell’istruzione prevede un tetto massimo di spesa libri per tipologia di scuola: nel 2012 nella scuola primaria ammontava a 147 euro in cinque anni, ma la cifra aumenta con l’arrivo nelle secondarie. Per il 2012/2013 i tre anni di secondaria di primo grado avevano un tetto di spesa di 543 euro, mentre in quella di secondo grado incide notevolmente la tipologia di scuola. Secondo il decreto del Miur, le più costose sono il liceo classico (1550 euro in cinque anni) e quello scientifico (1461 euro in cinque anni). Il decreto ministeriale 781/2013 ha ridotto per l’anno in corso i tetti di spesa per le secondarie del 10%, ma è previsto esplicitamente che si sfori tale soglia sempre del 10%.

Corredo scolastico

97-106 €: scrivere costa caro
Altroconsumo.it
Arriviamo poi al corredo scolastico, ossia all’acquisto di grembiuli e di tutti quegli elementi di cancelleria necessari allo studio (penne, matite, quaderni, righelli, etc.). Secondo un’indagine di Altroconsumo.it del 2012 è stata di 97 euro a bambino per prodotti economici e di 106 euro per quelli di marca, con un appiattimento al rialzo delle differenze. Infatti, mentre i beni della grande distribuzione (più economici) sono aumentati dell’8%, quelli di marca sono cresciuti del 3%.

Trasporti

Solo il 31,4% di bambini e studenti non ha spese di trasporto
Istat
Prima ancora di studiare, a scuola bisogna arrivarci. Statistiche aggiornate sull’argomento non sono disponibili, ma è possibile osservare quali sono i mezzi prescelti dagli studenti per raggiungere scuole ed università. Secondo i dati Istat riferiti all’anno 2013, la maggior parte di bambini e studenti universitari si reca a scuola o all’università muovendosi a piedi (29%) o in bici (2,4%), mentre il restante 68,6% dovrà sostenere costi per abbonamenti e carburanti.
Valori riferiti al 2013 sullo spostamento verso i rispettivi luoghi di istruzione di bambini di scuole di infanzia e primarie e studenti di secondarie ed università fino a 35 anni di età.

Mensa

72 € la soglia minima a Vigevano
Save the Children Italia
Il prolungamento degli orari scolastici impone spesso agli studenti di restare nell’istituto ad ora di pranzo, dando modo di poter usufruire – secondo regole stabilite singolarmente da ogni comune – del servizio di refezione scolastica. L’associazione Save the Children ha monitorato 36 comuni italiani per mettere in luce le pratiche di accesso alle mense scolastiche e le grandi differenze da città a città. Mentre in alcuni comuni l’esenzione al pagamento della quota di contribuzione per la mensa scolastica non è mai prevista (Palermo e Parma, ad esempio), in altre è possibile beneficiare del servizio secondo regole prive di qualsiasi uniformità sul territorio nazionale. Le tariffe, stabilite secondo il modello ISEE, si differenziano a tal punto che la soglia più bassa a Vigevano è di 72 euro, mentre a Napoli è di 5. 
Non mangiano a scuola i figli di quei genitori che non sono in regola con i pagamenti del contributo in 11 di quei comuni presi in esame dall’organizzazione indipendente (Brescia, Adro, Udine, Padova, Verona, Pescara, Perugia, Pisa, L’Aquila, Campobasso, Lecce). In particolare le scuole di Brescia, Vigevano e Campobasso vengono segnalate anche per altre prassi negative: hanno le rette più alte e non prevedono nessuna esenzione, neanche per famiglie in difficoltà.
Se in 25 comuni su 36 monitorati i non residenti devono pagare la quota più alta di contribuzione per la refezione, a Vigevano i figli dei genitori non in regola con i pagamenti vengono fatti accomodare in una sala diversa dalla mensa, in cui i bambini devono consumare il loro pasto portato da casa, isolati dai compagni di classe. Una pratica contro cui si sono espressi due genitori del comune lombardo che hanno chiesto ad Andrea Sala, Sindaco di Vigevano, di annullare la delibera numero 51/2012 “perché viola la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza”. La causa è stata adottata da Save the Children, che ha promosso una petizione online per l’abolizione della delibera.
Circa la pratica bresciana di far pagare di più i genitori non residenti nel comune, Antonella Inverno, Responsabile Area Legale di Save the Children Italia, ha osservato che il requisito della cittadinanza nel comune di appartenenza della scuola “può avere effetti discriminatori nei confronti dei bambini che non risiedono in quel territorio, che poi, spesso, sono figli di genitori migranti o provengono da famiglie più in difficoltà che vivono fuori dei centri cittadini”.

Esclusione dal mondo del lavoro di uno dei genitori


Una madre su quattro lascia il lavoro nei primi due anni di vita del figlio
Istat
Una riflessione a parte merita il destino di quei genitori, troppo spesso le madri, costretti a preferire l’abbandono di qualsiasi velleità lavorativa riconosciuta per sopperire all’assenza di sostegno da parte dello stato. Come visto, gli asili nido hanno costi di iscrizione esorbitanti, che spesso costringono le madri a dedicarsi esclusivamente alla cura dei figli, se, prima del concepimento, prive di lavoro o vincolate da contratti a progetto. Non sempre, infatti, è possibile tornare a lavorare – o ricevere un primo impiego – con retribuzioni che quantomeno coprano le spese dell’asilo. Nel 2012 i dati Istat riportati da La Stampa hanno segnalato che nel 2010 il 64,7% delle donne incinte aveva un impiego, ma nei due anni di vita del figlio la percentuale è scesa al 53,6% (il 23,8% è stato licenziato, al 15,6% non è stato rinnovato il contratto, il 56,1% si è dimesso). Anche questi casi – non pochi – vanno inclusi nei costi sostenuti dai genitori per mandare i figli a scuola. Un costo sociale, ancor prima che esclusivamente economico

mense scolastiche italiane

fonte: save de children

Mense italiane: troppe disuguaglianze nei criteri di accesso


In Italia i criteri di accesso alle mense non sono omogenei e in alcuni casi, se i genitori non riescono a pagare la retta, i figli non possono accedere alla sala mensa e sono costretti a mangiare da soli in classe, trovandosi così in una situazione che li marginalizza. Qual è la tua esperienza in merito?
mense in italia
Nel marzo del 2012 il Comune di Vigevano ha adottato una delibera che colpisce duramente i bambini più svantaggiati. La delibera numero 51/2012 impone anche alle famiglie con i redditi più bassi, che tuttavia non sono in carico ai Servizi Sociali, il pagamento del servizio di mensa scolastica per i propri bambini e stabilisce che basta che una famiglia non paghi anche una sola retta (120€ a fascia massima) perché il bambino sia escluso dal servizio e costretto a consumare il pranzo portato da casa in una stanza separata, lontano dai propri compagni o addirittura a tornare a casa.
Per questa ragione stiamo supportando una petizione rivolta al Sindaco di Vigevano per annullare questa delibera.
Purtroppo il comune lombardo non è il solo in cui avvengono cose di questo tipo, infatti in Italia non esiste un criterio omogeneo che stabilisca le quote della mensa o i criteri per aver diritto alle esenzioni.

Città in cui non sono previste esenzioni a famiglie con reddito basso o con situazioni di disagio elevato

I comuni di Verona, Reggio Emilia, Vigevano, Brescia, Genova, Napoli, Perugia, Torino, Aosta, Udine, Catania e Sassari esonerano dal pagamento della mensa solo i minori segnalati dai servizi sociali.
Nel caso di Genova ne sono esenti anche i figli di rifugiati o di famiglie particolarmente numerose, come previsto anche dai comuni di Verona, Ancona e Bari. 

I comuni che applicano le esenzioni seguono criteri non omogenei a livello nazionale

Si va da un’esenzione basata su un tetto ISEE di zero Euro a Perugia fino a Potenza che prevede un’esenzione completa per i nuclei con ISEE fino a 8.000,00 Euro e Trieste fino a 7.250 Euro.
Alcuni comuni inoltre prevedono esenzioni per famiglie particolarmente svantaggiate, in cui sia sopravvenuta per esempio una disoccupazione, come nel caso dei comuni di Genova, Bari e Cagliari. A Lecce non pagano la mensa anche i bambini delle comunità rom, al fine di favorirne l’integrazione.
Rispetto al quantum della contribuzione, benché tutti i comuni mappati prevedano una modulazione delle tariffe in base al reddito e a particolari condizioni del bambino (per esempio in adozione, affidamento o segnalato dai servizi sociali) e della famiglia saltano all’occhio le notevoli differenze da città a città. Si va da una tariffa minima mensile di 5 Euro a Napoli, 7 Euro a Salerno, fino a 72 Euro a Vigevano, 66 Euro a Brescia e 53 Euro a Campobasso.
La tabella di seguito riporta una sintesi delle prassi migliori e peggiori in Italia.
criteri-mense-italiane
Qual è la tua esperienza in merito? Nella scuola dei tuoi figli si sono verificate situazioni di questo tipo? Scrivi qui la  tua esperienza, per aiutarci ad avere un quadro ancora più chiaro della situazione.


fonte:l'espresso

Il bambino mangia a scuola? Se è povero no

A Crotone i figli di chi non paga la retta mangiano un panino in classe. A Vigevano oltre quattrocento piccoli sono esclusi dalla refezione scolastica. E non sono gli unici casi. Come rivela un'indagine di 'Save the Children' in Italia i bimbi non sono tutti uguali. E gli indigenti in alcuni comuni non hanno diritto di mangiare con gli altri

di Michele Sasso

Il bambino mangia a scuola? Se è povero no
Che differenza c'è tra un bambino che va a scuola a Vigevano e uno che frequenta la stessa classe a Bari? Nessuna, se la famiglia non ha problemi economici e riesce a pagare la retta della mensa. Ma se la crisi morde e saltano i pagamenti dei pasti la differenza si nota eccome: in Lombardia viene escluso, nella città pugliese nessuno gli nega nulla.

A scuola gli alunni dovrebbero avere gli stessi diritti e doveri. Ma la musica cambia per la refezione scolastica. A monitorare trentasei piccoli e grandi comuni ci ha pensato la onlus Save the Children, realizzando un dossier nell'ambito della campagna “ Illuminiamo il Futuro ” per dare educazione e speranza ai bambini stretti nella morsa delle povertà.

Nelle scuole primarie ogni comune si regola diversamente per le tariffe, le eventuali esenzioni o riduzioni e in caso di morosità. Sono Vigevano, Brescia e Campobasso le maglie nere, con le rette tra le più alte d'Italia, nessuna esenzione anche per famiglie in difficoltà ed esclusione immediata del bambino in caso di morosità.

La cattiva prassi dell'esclusione dei bambini dal servizio mensa laddove i genitori non siano in regola con il pagamento trasforma il pasto da fattore di integrazione a occasione di stigmatizzazione. A Crotone, per esempio, i bambini sono costretti a scegliere tra consumare un panino in aula da soli o lasciare l'edificio.
Una rivalsa nei confronti dei genitori morosi che diventa esclusione degli alunni.

«La mensa scolastica deve diventare un diritto di base garantito a tutti i bambini, secondo standard di qualità certificati» spiega Raffaela Milano, direttore dei programmi di Save the Children Italia: «Il momento del pasto è estremamente importante per ogni alunno e in particolare per chi vive in condizioni di povertà, perché spesso è l'unica occasione per mettersi a tavola. Invece a seconda del territorio in cui vive si può avere o non avere l'accesso alla mensa».


QUI NON SI MANGIA

Tutto è iniziato nel piccolo comune bresciano di Adro dove il sindaco leghista ne fece una questione di principio discriminante: chi è indietro con i pagamenti non entra. Era il 2010 e Oscar Lancini decise di sospendere il servizio mensa e scuolabus per le famiglie che non pagavano regolarmente la retta.
La decisione rimbalzò sui giornali e sollevò un polverone. Per evitare che nessun bambino restasse senza pranzo e trasporto, l'imprenditore bresciano Silvano Lancini versò di tasca propria 10 mila euro e saldò il debito delle famiglie.

Poi alle rette pensarono la Caritas e altri volontari generosi fino a novembre 2012. Ma il caso non si sgonfiò. Fino a quest'anno ai 30 euro mensili delle famiglie in difficoltà economica ci hanno pensato gli insegnanti dell'istituto. Nel frattempo il sindaco ha finito la sua carriera con l'arresto: avrebbe favorito alcune aziende nella gara d'appalto per la realizzazione di alcune opere in paese.

La linea dura del sindaco sceriffo però ha fatto proseliti. Sempre in Lombardia un altro sindaco leghista decide di escludere dalla mensa scolastica 129 bambini, le cui famiglie non pagano la retta. Il caso-mensa è scoppiato a Vigevano (Pavia), dove il sindaco Andrea Sala non intende fare sconti a nessuno. E dopo la primo stop del 2012 replica anche per quest'anno: sono 403 i bambini delle scuole dell'obbligo che, al momento, sono sospesi dalla mensa scolastica.

E se la giunta leghista non fa retromarcia Save the Children ha deciso di sostenere alcuni genitori e di promuovere una petizione online ( www.illuminiamoilfuturo.it/petizione ) rivolta primo cittadino, per chiedere che la mensa a scuola sia gratuita per i bambini più poveri. E che sia ritirata la delibera comunale del 2012 che impone alle famiglie con i redditi più bassi il pagamento del servizio e stabilisce che basta che non si paghi anche una sola retta perché il bambino sia escluso dal servizio e costretto a consumare il pranzo portato da casa in una stanza separata, lontano dai propri compagni o addirittura a tornare a casa.

«Vigevano si segnala in negativo fra i comuni monitorati per dei criteri di accesso al servizio di refezione così restrittivi e penalizzanti da diventare discriminatori nei confronti dei bambini di famiglie in difficoltà. Si tratta di decisioni che ledono il diritto all'istruzione e alla salute, sancito dalla Convenzione Onu sui Diritti dell'Infanzia» commenta Antonella Inverno, dell'area Legale di Save the Children Italia.

LE MIGLIORI PRATICHE

Nel monitoraggio della onlus le differenze a tavola sono evidenti: a Vigevano, Brescia, Adro, Trento, Padova, Parma, Campobasso, Salerno e Palermo non è prevista l'esenzione dal pagamento della quota di contribuzione al servizio mensa pur in presenza di redditi molto bassi o di situazioni di disagio per le famiglie non prese in carico dai servizi.

Ma anche in quei comuni dove l'esenzione è prevista, né i criteri né la soglia di accesso sono omogenei. Si va da un'esenzione basata su un tetto di zero euro a Perugia, fino a Potenza che prevede un'esenzione completa per i nuclei con redditi fino a 8 mila euro, mentre a Trieste scende a 7.250 Euro.

Alcuni comuni inoltre prevedono esenzioni dal pagamento per famiglie particolarmente svantaggiate, in cui sia sopravvenuta per esempio una disoccupazione, come nel caso dei comuni di Genova, Bari e Cagliari.
I comuni di Verona, Reggio Emilia, Vigevano, Brescia, Genova, Napoli, Perugia, Torino, Aosta, Udine, Catania e Sassari esonerano dal pagamento della mensa i minori segnalati dai servizi sociali. Nel caso di Genova ne sono esenti anche i figli di rifugiati o di famiglie particolarmente numerose, come previsto anche dai comuni di Verona, Ancona e Bari.

A Lecce non pagano la mensa anche i bambini delle comunità rom, per favorirne l'integrazione. Rispetto alla contribuzione, benché tutti i comuni mappati prevedano una modulazione delle tariffe in base al reddito e a particolari condizioni del bambino (per esempio in adozione, affidamento o segnalato dai servizi sociali) e della famiglia, saltano all'occhio le notevoli differenze da città a città. Si va da una tariffa minima mensile di cinque euro a Napoli, poco più Salerno fino a 72 Euro a Vigevano, 66 Euro a Brescia e 53 Euro a Campobasso.


IL TERRITORIO CONTA

Si conferma invece anche quest'anno per la maggioranza dei comuni (25 su 36) la cattiva prassi di escludere da esenzione o riduzione della contribuzione i bambini non residenti nel comune di riferimento. Così vivere dentro o fuori il confine comunale cambia tutto.

Per i bambini delle tre scuole dell'infanzia di Villaricca, 30 mila anime alla periferia di Napoli separate dall'enorme comune di Giugliano solo da un marciapiede, la mensa non costa uguale. Secondo una delibera dello scorso ottobre, i residenti sborsano 35 euro per 20 pasti, gli altri 78 euro. Per questo è scoppiata una protesta capeggiata dalle mamme dei piccoli giuglianesi, i più numerosi specie nella scuola Rodari di Villaricca che è sul confine.

La giunta di Villaricca ha fatto un passo indietro: fino allo scorso anno garantiva lo stesso contributo nella retta della mensa (65 per cento a carico del Comune e 35 per cento delle famiglie) indipendentemente dalla residenza dei figli. Trovandosi ormai con i trasferimenti statali al contagocce, l'amministrazione ha deciso di differenziare le tariffe per recuperare il recuperabile.

Risultato? I 278 bambini che non abitano lì ma popolano gli asili di Villaricca, pagano la quota piena con un risparmio per le casse comunali di 60-70 mila euro. «Tutti i minori sono titolari degli stessi diritti, il criterio della residenza può avere effetti discriminatori nei confronti dei bambini che non risiedono in quel territorio, che poi, spesso, sono figli di genitori migranti o provengono da famiglie più in difficoltà che vivono fuori dei centri cittadini» spiega Antonella Inverno, dell'area Legale di Save the Children Italia.

Qualcuno avvisi i sindaci pronti a tagliare anche sui pasti dei più piccoli.

DOSSIER SCUOLE PARITARIE

fonte: UNICOBAS

DOSSIER SULLE SCUOLE PARITARIE

http://www.webalice.it/paolo.latella/La%20scuola%20paritaria%20un%20business%20tutto%20italiano.pdf

camerano : pedibus

Camerano: al via da lunedì 12 maggio la sperimentazione del Pedibus
immagineL’assessore all’istruzione ed ai sociali Martina Recanatini, destinataria assieme ai servizi scolastici, di questo indirizzo politico, sottolinea che il merito di questa sperimentazione non è solo del Comune ma va soprattutto ascritto alla collaborazione preziosa dei medici; in particolare ricorda il Dr Garbuglia che con raro spirito di servizio ed autentica passione, ha condotto i ragazzi in quella che è la mentalità del vivere sani. Un ringraziamento anche alla “Medicina di Gruppo Camerano” che con la dr.ssa Pascali ha arricchito di dati importanti. La Medicina di Gruppo non è nuova a questi temi, se consideriamo che con la “Giornate dismetaboliche cameranesi” ci ha donato dei momenti di alta prevenzione. L’assessore ricorda infine, ma non per ultimi, i genitori; genitori che hanno colto lo spirito dell’iniziativa e che meriterebbero di essere citati uno ad uno.

I loro volti sono l’immagine di chi crede ai bambini prima che a se stesso. Ma vi è di più. L’organizzazione è stata affidata dal Comune alla Forestalp, la quale anche stavolta non si è smentita: Maurizio Baccanti è stato un altro importante attore di questa sperimentazione. Un lavoro serio insomma, portato avanti nella semplicità. Sono i piccoli segni che dicono se una comunità é sana, l’assessore è soddisfatta, perché tutto ciò che nasce da persone sane, libere, che sanno mettersi in discussione per il bene di tutti è cosa buona, a prescindere.

Il Pedibus è un autobus umano fatto di una carovana di bambini in movimento accompagnati da adulti, con capolinea, fermate, orari e un suo percorso prestabilito. In questa fase di sperimentazione del Pedibus, che funziona solo all’andata, sono attivi due percorsi ed hanno aderito 37 bambini e 9 genitori volontari. Il Comune rimane a disposizione per informazioni e ulteriori partecipazioni.
dagli Organizzatori

giovedì 1 maggio 2014

macerata: alle radici dell'accoglienza

difendo quelle docenti, la scuola deve affrontare il tema dela diversità


OMOFOBIA, FINALMENTE IL MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE SI SCHIERA E DIFENDE GLI INSEGNANTI DEL GIULIO CESARE
L’INTERVISTA / IL MINISTRO STEFANIA GIANNINI
...Difendo quelle docenti la scuola deve affrontare il tema della diversità”
"Da Platone a Saffo, in modo più o meno crudo, il soggetto è stato sempre trattato
Al Giulio Cesare si parlava di tutti i problemi: una cosa seria"

CATERINA PASOLINI
«TROPPI ragazzi si sono uccisi in questi anni perché gay, dopo aver subito offese e umiliazioni. Il problema esiste e va affrontato anche nelle scuole. Al liceo Giulio Cesare l’hanno fatto, per quanto ho potuto ricostruire, in modo assolutamente corretto ». Il ministro della pubblica istruzione Stefania Giannini interviene sul libro di Melania Mazzucco, che narra di una storia d’amore omosessuale, dato da leggere a casa agli studenti e che ha visto i professori per questo denunciati da due associazioni sollecitate
da una coppia di genitori.
I genitori scandalizzati parlano di libro porno.
«Ammetto di non aver letto “Sei come sei”, non so quindi se quello fosse il libro più adatto come stile a dei teenagers per trattare l’argomento della diversità di orientamento sessuale. Ma stiamo parlando di una scrittrice che ha vinto il premio Strega, di una casa editrice come Einaudi, mi sembra francamente difficile sostenere un’accusa di pornografia».
Allora il problema è l’omosessualità?
«Forse, certo è che in tutta la letteratura dai greci in poi, da Platone a Saffo, il tema dell’amore omosessuale è stato trattato in tutte le sue declinazioni, da quelle più crude ad altre metafisiche. Quindi mi viene il sospetto che questa volta le accuse siano strumentali, ideologiche».
Perché dice: tutto regolare?
«Perché da quello che ho potuto ricostruire, ed è mio compito essendoci stato un esposto, quel libro è stato dato da leggere all’interno di un progetto sulle diversità condiviso tra studenti, professori, docenti. Un progetto elaborato che parlava di tutte le diversità, dalla nazionalità alle differenze religiose. Con tanto di discussioni in classe e tema alla fine. Insomma qualcosa di approfondito e serio».
Gli studenti hanno apprezzato?
«Sì, molto, tanto che mi risulta che oggi abbiano scritto alla preside per darle il loro appoggio, risentiti per gli attacchi».
Fuori dal liceo c’erano cartelli con scritto «maschi selvatici e non checche isteriche »...
«Non sono frasi neppure da commentare, si commentano da sole. Dimostrano quanto ancora ci sia da fare in questo paese perché tutte le diversità vengano accolte, perché i ragazzi non si uccidano dopo essere stati insultati o aggrediti. Bisogna lavorare a scuola, ma anche le famiglie devono fare la loro parte. Lo ha detto anche il Papa».
Cosa ha detto il Papa?
«Anche lui ha parlato di omosessualità dicendo: chi sono io per giudicare. Un modo per segnalare l’importanza di un tema, di un vero problema. Perché un dato di fatto: il bullismo sui gay è una realtà oggettiva da combattere in tutto il mondo, Italia compresa».
Come: tutto ma non il silenzio?
«Sì, il grande nemico è l’ignoranza, per questo ben vengano i programmi di lettura
che integrano i libri classici a temi di attualità. Ogni scuola decida come meglio crede ma affronti argomenti delicati, bisogna sensibilizzare gli studenti e le famiglie a conoscere e capire tutte le diversità».
Lei come ne ha parlato con i suoi figli?
«Non mi ricordo un giorno specifico in cui ho affrontato l’argomento dell’omosessualità, ma hanno respirato un atteggiamento di apertura. E hanno avuto la fortuna di andare in una scuola dove tutte le diversità erano rappresentate, fossero di nazionalità, religione o orientamento sessuale. Tanto che i miei figli hanno amici omosessuali e all’interno del loro gruppo non hanno alcuna difficoltà».
Su indicazione del ministro Fornero erano stati fatti opuscoli per aiutare i professori sul tema dell’omosessualità. Mai stati consegnati.
«Erano stati commissionati all’istituto Beck, ma per le parti che mi sono state fatte leggere sulla famiglia mi sembravano assolutamente fuori contesto, nulla a che fare con l’Italia».
I cattolici li hanno contestati. Ora si buttano?
«Non sta a me decidere"