lunedì 26 agosto 2013

scuola, come è andato a finire il sistema nazionale di Valutazione

fonte: il fatto quotidiano
Scuola, come è andato a finire il Sistema Nazionale di Valutazione
di Marina Boscaino | 7 agosto 2013

Se abbiamo davvero a cuore il tema della valutazione, noi insegnanti dobbiamo capire due cose: 1) non si può cavalcare l’emergenza in maggio (quando si celebrano i test Invalsi) e dimenticarsene poi per tutto il resto dell’anno; 2) non si può più – grazie alla nostra precedente inerzia, ma anche per motivi di opportunità culturale e miglioramento del sistema scolastico – dire no senza se e senza ma alla valutazione; bisogna, casomai, prendere parte attiva al dibattito e contribuire concretamente alla determinazione di un’idea di valutazione culturalmente significativa, esigendo piuttosto quegli spazi che ci sono sempre stati negati e che noi abbiamo accettato ci venissero interdetti. Se non riflettiamo su questi elementi, qualsiasi posizione rischia non solo di diventare inattendibile, ma anche di essere irricevibile, considerando l’andamento delle politiche scolastiche su questo tema da Moratti ad oggi e l’arroganza istituzionale con cui è stato portato avanti.

Detto questo: perché nessuno parla del fatto che il 4 luglio è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 155 il Dpr 80 del 28 marzo 2013, contenente il Regolamento sul Sistema Nazionale di Valutazione in materia di istruzione e formazione, entrato in vigore il 19 luglio? Eppure quel regolamento suscitò – dopo la sua approvazione surrettizia ed intempestiva da parte del governo Monti, ad abbondante scadenza di mandato – proteste sia nel merito che, appunto, nel metodo. Sono stati proprio l’inerzia e il disinteresse del mondo della scuola a far sì che nel silenzio generale dal prossimo anno il famoso sistema “a tre gambe” della valutazione (Invalsi, Indire, Ispettori) si applichi in quanto legge. Vuol dire aver abdicato a qualsiasi ruolo e funzione di “ricerca, sviluppo, sperimentazione”; aver cessato di proporre e di esigere un ascolto concreto, nonché il relativo riconoscimento che solo competenza, esperienza e statuto professionale di docenti possono condurre all’elaborazione partecipata di un sistema di valutazione che non sia – come quello che subiremo – piovuto dall’alto e basato su principi asfittici e non condivisi. Non abbiamo alcun diritto di lamentarci, dunque, dal momento che non abbiamo nemmeno tentato – con il nuovo governo – di spiegare il senso di un ostruzionismo a questo modello valutativo (che ora è legge), che non è mai significato ostruzionismo tout court alla valutazione, ma a un sistema di misurazione legato a doppio nodo con premialità, meritocrazia, egemonia di un organismo governativo (l’Invalsi), disinteresse per una concezione di valutazione che abbia come primo obiettivo l’intervento costruttivo su situazioni critiche o carenti.

I risultati dei test Invalsi, prontamente pubblicati dal Miur, hanno peraltro confermato quanto già si sapeva: tra le voci dei vari commentatori degli esiti poco lusinghieri emersi, ben ha spiegato Giorgio Israel, che sottolinea come il rincorrere “mode” didattiche nel nostro Paese, non ultimo il “teaching for testing” – la subordinazione della didattica alla risoluzione dei test come principale obiettivo – abbia ibridato le discipline e ne abbia impoverito la comprensione.

È di questi giorni la polemica su quello che sarà – e non poteva chiamarsi diversamente – il VCamp, annunciato dal commissario straordinario, Paolo Sestito, dell’Invalsi (Istituto Nazionale per la Valutazione del sistema educativo d’istruzione e formazione): dal prossimo 25 agosto al primo settembre cento tra docenti e dirigenti di tutt’Italia parteciperanno a una scuola estiva di formazione sulla valutazione. Requisiti per la partecipazione: non meno di tre anni di ruolo per i dirigenti, cinque per i docenti, che dovranno essere stati collaboratori del dirigente scolastico, presidi incaricati o titolari di funzioni strumentali; il personale prescelto dovrà avere ancora davanti a sé almeno cinque anni di servizio da svolgere. Sono stati delegati a ciascun direttore di ogni Ufficio Scolastico Regionale l’individuazione e la segnalazione di 200 nominativi, tra i quali ulteriormente scegliere sulla base dell’esito di una selezione. Le spese di viaggio, vitto e alloggio sono a carico o degli aspiranti corsisti o degli uffici scolastici regionali di provenienza; quelle di partecipazione alla scuola estiva saranno a carico di Invalsi.

Piovono da più parti segnalazioni sulle pratiche non proprio trasparenti adottate per il reclutamento dei candidati. Del resto non è un mistero per nessuno che – trasversalmente, a parte rari casi sporadici, da destra a sinistra – chi ha messo finora mano al tema della valutazione – nella sequenza di ministri che si sono alternati dopo Moratti – ha preferito poter contare su personale disposto a battere i tacchi e mettersi sull’attenti di fronte alle pratiche pedestri e allo scimmiottamento delle metodologia di un’Europa di maniera, piuttosto che affrontare la complessità del problema, allargare il dialogo e accettare il dibattito critico, produrre ricerca, trovare soluzioni condivise. Ma la scuola in quanto tale ha sicuramente giocato un ruolo fondamentale per assecondare l’affermazione del pensiero unico. Ora il nostro silenzio, l’assenza di informazione, le assemblee di formazione disertate, la solitudine in cui molti di noi si sono trovati ad intervenire, producendo uno sforzo di ricerca non riconosciuto e spesso inascoltato, ricadranno sulla scuola tutta, sui nostri studenti e su una classe docente che negli ultimissimi anni è stata capace di mobilitarsi consapevolmente, omogeneamente e coerentemente solo davanti al pericolo delle 24 ore. Troppo poco. Ci sono battaglie culturali e politiche che non possono essere lasciate a sparute avanguardie di volenterosi. 
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/08/07/scuola-come-e-andato-a-finire-il-sistema-nazionale-di-valutazione/679202/

domenica 25 agosto 2013

LA NUOVA SCUOLA PREMIA I SIGNORSI' SENZA SPIRITO CRITICO


FONTE: SCUOLA E COSTITUZIONE
Le direttive Ue e Ocse trasformano l’istruzione per creare generazioni più flessibili su
l lavoro
di Christian Raimo
-
18 August 2013
Quando si parla del mondo del lavoro e del mondo della scuola sembra sempre che si parli di due
questioni totalmente distinte. E invece, nell’Italia con il Pil che crolla, nel mare magnum delle
fugacissime
questioni estive, ci sono un paio di notizie che si accoppiano per farci capire come
dobbiamo immaginarci il futuro prossimo.
La prima è la disfida modello western tra Fiom e Fiat,
simboleggiata al meglio dal duello in
pieno sole tra Marchionne e Landini
: il contenzioso nello specifico è la sentenza della Cassazione
che obbligherebbe la Fiat a dare spazio ai delegati della Fiom, mobbizzati e licenziati senza
nemmeno quegli ultimi scrupoli che sono gli articoli della Costituzione. Dalla parte di Marchionne
stanno quelli che invocano un modello d’industria nuovo, senza i laccioli di un sindacato
-
reliquia.
Dalla parte di Landini i difensori di diritti lesi da una globalizzazione che è tale solo nella
deregulation.
La seconda è che il concorso per docenti ch
e ha coinvolto milioni di persone in Italia
sta
volgendo al termine: entro l’estate ci saranno i vincitori. Da una parte, anche qui, c’erano gli
oppositori del concorso pensato ancora una volta una tantum, dall’altra
ex ministro Francesco
Profumo in test
a
coloro che hanno millantato questo concorso come l’inizio di un rinnovamento
della scuola, con l’assoldamento di nuovi insegnanti 2.0 armati di tablet e di una cultura didattica à
la page.
Ma cos’hanno in comune la Fiom e il concorsone?
C’è uno strano spettro che aleggia su
entrambi. Quello di un concetto
-
mondo che fluttua nel linguaggio aziendale e nel linguaggio della
scuola. Chi per esempio ha preparato l’orale del concorso in questa mezza estate l’ha dovuto
ruminare fino all’assorbime
nto osmotico: stiamo parlando delle famigerate “competenze”. Una
parola stravincente di una neo
-
lingua ibrida. Le competenze: la scuola del futuro sarà una scuola
delle competenze; questa scuola del futuro preparerà una società del futuro basata anche ques
ta
sulle competenze. I tre operai della Fiat sospesi forse non lo sapevano, voi: sappiatelo.
Non si tratta di un restyling meramente linguistico,
ma di un concetto che evoca un progetto di
formazione abbastanza nuovo. La sua elaborazione compiuta per la
scuola può essere datata al 2010
quando le Indicazioni Nazionali (che sarebbero il modo in cui sono stati riorganizzati i programmi
scolastici) si sono adattate a una poco visibile rivoluzione teorica partita dagli anni Novanta
che
ripensava il mondo in c
ui viviamo alla luce di una fantomatica “società della conoscenza”.
Chi è stato a voler ripensare il mondo?
Beh, parliamo soprattutto dell’Unione europea e altri
organismi internazionali tipo l’Ocse, secondo i quali esiste un
presupposto che dovremmo dare per
scontato nell’educazione del futuro: se si migliora la qualità del servizio d’istruzione, si offrono ai
cittadini le condizioni per “la costruzione di una vita realizzata” e per “il buon funzionamento della
società”.
Il
punto di partenza è stato il progetto
DeSeCo
(“Definition and Selection of Competencies”),
da cui sono man mano scaturiti fior di docume
nti fino ad arrivare alla Raccomandazione del
Parlamento europeo e del Consiglio, datata 2006, dove si definiscono quali sono le competenze di
base che servirebbero in questa nuova società. Sono nello specifico otto: 1) comunicazione nella
madrelingua, 2)
comunicazione nelle lingue straniere, 3) competenza matematica e competenze di
base in scienza e tecnologia, 4) competenza digitale, 5) imparare ad imparare, 6) competenze sociali
e civiche, 7) spirito di iniziativa e imprenditorialità, 8) consapevolezza e
d espressione culturale.
Ecco qui, i requisiti che un bel cittadino europeo 2020
per esempio i vostri figli, oppure voi
(dato che siamo tutti coinvolti in processi di
life
-
long learning
come si dice)
dovrebbe possedere
(Se ne volete sapere di più, la
loro formulazione più precisa la potete trovare in libro
-
menhir, una
specie di manuale di un nuovo ordine mondiale della “conoscenza” del 2003, edito da FrancoAngeli
a firma di questi due grandi teorici delle competenze, D.S. Ryken e L.H. Salganik, che s'
intitola
Agire le competenze chiave. Scenari e strategie per il benessere consapevole
. Sì, il titolo echeggia
un po’ Scientology, ma che volete che sia). Prima di provare a capire cosa sono queste benedette
competenze, possiamo già concordare a naso su una
sensazione: la mancanza in questo microelenco
di qualsiasi traccia di
come lo vogliamo chiamare?
sapere critico, né da un punto di vista della
conoscenza, né da un punto di vista politico...
Il buon funzionamento della società non deve educare cittadi
ni che mettano in crisi la società
stessa?
Questa potrebbe essere un’ingenua domanda.
A cosa serve la scuola? A adattarsi al mondo
così com’è, o a ripensarlo da capo a piedi?
E simili questioni se le pone un saggio illuminante di
Edoardo Greblo
contenuto nel numero
appena uscito (un numero monografico sulla scuola) di
Aut aut
intitolato
La fabbrica delle
competenze
. Per Greblo la conclusione è semplice: si educa alle competenze
per avere lavoratori
flessibili, adattabili a un mercato del lavoro sregolato e precario. Si educa l’individuo perché sia
capace di sopravvivere nella giungla di un mercato feroce e deregolato, facendo di lui un possessore
di competenze frammentarie e inte
rcambiabili, più che una persona (come era pensato nella
pedagogia deweyana che ha informato il Novecento e la nostra Costituzione, compromesso di
cattolicesimo e socialismo).
Insomma pare che stiamo nel mezzo di una specie di trasformazione distopica i
navvertita
che
passa per circolari e documenti nazionali per finire nelle aule scolastiche e nelle fabbriche e negli
uffici. È proprio così? A dir la verità questa è la sensazione che si può avere, quando
nell’universomondo di centinaia di libri di nuova d
idattica, uno si imbatte in un articolo semplice
semplice di
Marcel Crahay
. Il suo
Dangers, incertitudes et incomplétude de la logique de la
compétence en
éducation
può fare l’effetto dei documenti scritti da
Emmanuel Goldstein
in cui
Winston Smith si imbatte a metà di
1984
di Orwell: ossia una sorta di disvelamento di tutto il
progetto neo
-
soc
iale governato dal Grande Fratello.
È davvero così oscuro il futuro? Se non vogliamo concluderla con una cupissima evocazione
fantascientifica,
facciamo un passo indietro, senza schierarci subito dalla parte dei Savonarola.
Interroghiamoci su cosa sono q
ueste competenze, dicevamo. La verità è che rispondere non è per
niente facile: sia Greblo che un altro ricchissimo saggio (uscito l’anno scorso per Carocci e passato
in sordina),
Insegnare concetti
di Alberto Gaiani, mettono in luce che quando si parla di
competenze non si capisce di che cavolo si sta parlando.
Non c’è una caratterizzazione di competenze che metta d’accordo gli studiosi:
a par
tire dal
lavoro di Ryken e Salganik, andando avanti e indietro si trova un grande minestrone teorico che
butta insieme Vygotskij, Piaget e Bruner col pensiero debole e una spruzzata di sociologia di
Bauman: una ridda di definizioni tale, tra documenti uffi
ciali e tentativi onnisintetici, da far scrivere
a Marcel Crahay nel 2006: «La nozione di competenza è una caverna di Alì Baba concettuale nella
quale si trovano accatastate, l’una accanto all’altra, tutte le correnti teoriche della psicologia, anche
quell
e più contrarie». Ma se è un concetto così confuso, se la parola “competenze” non è altro che
quello che in sociolinguistica si chiama “plastismo”, ossia un concetto dal significato talmente vago
da non averne alcuno, se insomma parlare di competenze è par
lare di tutto e di niente, uno si chiede,
queste competenze a cosa servono? E perché diventano così centrali nel riconsiderare la formazione
per l’intero mondo occidentale?
Per due motivi, che Greblo mette in evidenza chiaramente.
Primo, con le competenz
e si
raggiunge l’obiettivo massimo di misurare con pretesa di oggettività qualcosa di immisurabile. Pare
che si sia trovato lo strumento perfetto: ho dei numeri, un giudizio, una valutazione su qualcosa che
in realtà vive nell’assoluto arbitrio. Tipo, mett
iamo che vogliamo valerci di questa valutazione per
competenze. Allora consideriamo come competenza quello che dicono Ryken e Salganik, ossia «il
costrutto di cui abbiamo bisogno per fronteggiare la sfida della complessità, grazie al fatto che il
tratto co
stitutivo e la riflessività, ovvero la capacità del soggetto di porsi nel mondo in modo
flessibile, adattabile, tollerante, con apertura mentale, responsabile, con spirito d’iniziativa»: capite
che non è difficile che se io sono quello che deve giudicare h
o in mano un dispositivo talmente
generico e plastico che me ne posso servire un po’ come voglio, no?
Secondo motivo
già evocato in quest’ultima definizione
le competenze sono il modo in cui
impariamo a essere giudicati positivamente se siamo adattab
ili, se siamo flessibili, se c’integriamo
bene nel mercato del lavoro, se detta alla spiccia non rompiamo il cazzo.
Dal momento che, per l’impresa, i servizi di formazione possono essere costosi,
questa ha
evidentemente tutto l’interesse a intervenire sul
la scuola per spingerla a trasformare i propri
programmi in termini di competenze... [...] interpretare correttamente un problema, leggere
correttamente una procedura, ritrovare in un testo di riferimento le informazioni utili per un certo
uso, reagire in ma
niera critica a una situazione. Ne sono seguite forme di pressione sulle autorità dei
sistemi educativi per intervenire sui programmi generali di studio e per introdurvi un apprendimento
di queste specifiche competenze. (G.Le Boterf,
De la competence: essa
i sur un attracteur etrange,
Les Editions d'Organisation, Paris 1994).
Perché insomma le aziende si devono far carico di educare alla flessibilità se lo può fare la
scuola?
Perché non rendere il pensiero critico neutralizzato e strumentale ai bisogni di
un’azienda?
La verità è che ogni volta che s’invoca il feticcio della misurabilità oggettiva si occulta la più
assoluta legittimazione della pura soggettività, dell’arbitrio. Come accade per le competenze, così
accade per la “meritocrazia”: altro pseudocon
cetto, altro plastismo che delle competenze è lo
speculare; se io ho per le mani concetti così vaghi come competenza o merito, è chiaro che sarà
fondamentale chi è che decide quali sono le persone competenti o quelle meritevoli.
Facciamo
un esempio. Non è complicato valutare se uno conosce il pensiero filosofico di
Leopardi
e se sa fare l’analisi del testo della
Ginestra
. Mettiamo che io debba valutare e valutare se
quello stesso studente a partire dalla conoscenza di Leopardi avrà svilupp
ato una serie di
competenze. Per esempio? Per esempio «il possesso di una serie di risorse e la capacità di
mobilitarle in un’azione complessa che coinvolge componenti cognitive e non cognitive», tenendo
conto che «una competenza non può essere osservata o
valutata direttamente, ma soltanto
indirettamente, attraverso la performance prodotta dal singolo». Io docente valutatore, come mi
barcamenerò? Che presunta oggettività utilizzerò? Valuterò positivamente la sua capacità di
arrampicarsi sugli specchi? Valu
terò positivamente la capacità che la lettura di Leopardi gli ha
fornito di adattarsi a un ambiente lavorativo ostile?
Gli operai della Fiom hanno malinterpretato Leopardi e non utilizzato a dovere le
competenze
che la lettura della
Ginestra
, evitando di cooperare verso le magnifiche sorti e
progressive evocate dal poeta? Mi ponevo questa domanda perché a un certo punto, dopo questa
indigestione linguistica della retorica delle competenze, mi sono
ricordato di un librettino, uscito da
Einaudi vent’anni fa,
Lo spirito Toyota
di Taiichi Ohno. A risfogliarlo oggi si ha l’impressione di
una profezia realizzata.
Ci si ritrovano 'ste benedette competenze come un elemento già essenziale
della “rivoluzione toyotista”: il ventaglio di competenze di un lavoratore deve essere talmente
ampio da farlo sentire parte di un sistema produttivo globale.
Se non hai ancora comi
nciato, sviluppa competenze, se vuoi restare a galla nella fabbrica della
“produzione snella”.
L’altro aspetto meno evidente, legato alla retorica delle competenze, è quello della delegittimazione
della prospettiva etica e di quella politica nell’educazion
e.
Questo concetto [della prassi], nell’epoca della scienza e del suo ideale di certezza, ha perso la
sua legittimità.
Poiché da quando la scienza vede il suo scopo nell’analisi isolante dei fattori
causali dell’accadere
nella natura e nella storia
r
iconosce la prassi solo più come applicazione
della scienza [...]. Così il concetto di tecnica ha sostituito quello di prassi; cioè la competenza degli
esperti ha preso il posto della ragione politica» (H.
-
G. Gadamer,
Verità e metodo
, Milano,
Bompiani, 200
4 [ed. or. 1960], pp. XLV
-
XLVI; ma cfr., in generale, il cap. «L’attualità
ermeneutica di Aristotele», pp. 363
-
376).
La storia della “didattica” nella nostra società occidentale forse parte proprio
duemilatrecento anni fa,
dal libro Alfa della Metafisica
aristotelica in cui si dichiara
esplicitamente che la conoscenza si definisce proprio per la sua possibilità di essere insegnata, e
come tutto questo abbia a che fare chiaramente con una formazione politica: a cosa serve la scuola
in fondo se non a farci
capire come possiamo mettere in campo per cambiare il mondo in cui siamo
capitati?
Per questo ogni volta che sento parlare di competenze mi viene in mente
quanto per fortuna
nelle parole di Aristotele, di Leopardi, di Nietzsche, di Freud, ecc... ossia d
i tutto quel canone che
grazie al cielo resiste alle riforme scolastiche, di tutta questa neolingua non vi sia traccia. Espulso
dal mondo del lavoro, della contrattazione sindacale, il pensiero critico; respinta come un fastidio la
sentenza della Cassazion
e che dice di reintegrare in fabbrica gli operai Fiom; c’è solo da vigilare
che questa liquidazione del linguaggio non allineato non riesca ad attecchire anche nella scuola,
educando degli esseri umani adattabili, competenti, funzionali.
E certo sarebbe
bello se, invece delle otto vaghe e inutili macrocompetenze
indicate
dall’Unione europea a qualcuno al Ministero dell’Istruzione venisse in mente di opporre
l’endecalogo che
Martha Nussbaum
tracc
ia in
Non per profitto
:
1. Esaminare una tesi. 2. Riflettere su essa. 3. Formularne una in modo autonomo. 4. Dibattere
senza deferenze per tradizioni o autori
tà. 5. Riconoscere l’uguaglianza dei diritti. 6. Rispettare le
persone. 7. Interessarsi agli altri. 8. Saper immaginare la complessità degli altri punti di vista. 9.
Giudicare in modo critico chi detiene il potere politico. 10. Pensare a una nazione come u
n intero e
non come una somma di gruppi. 11. Vedere la propria nazione in relazione alle altre.
Non è impossibile essere cittadini in un modo diverso, no?