martedì 19 febbraio 2013

università: ma i poveri studiano con i soldi dei poveri

Nel giudicare l’equità del trasferimento di risorse implicito nel finanziamento pubblico degli atenei va considerato che i benefici associati all’acquisizione della laurea sono per lo più individuali. E una parte preponderante dei contribuenti meno abbienti non ha figli iscritti all’università.
LA LAUREA, CHI LA FINANZIA E CHI NE BENEFICIA
Giudicare l’equità del sistema di finanziamento dell’università è difficile, sia per le limitazioni dei dati disponibili, sia per problemi concettuali che attengono alla natura dell’investimento in istruzione superiore.
In un articolo sul Corriere della sera del 10 dicembre 2012 e nella versione a stampa del nostro libro avevamo posto la questione in questi termini: qual è il saldo tra quanto ciascuna classe di reddito riceve del servizio offerto dall’università e quanto paga per finanziarlo? (1) Avevamo dato una risposta che, utilizzando i dati allora a disposizione, richiedeva l’integrazione di due fonti diverse e per questo soffriva di una limitazione. Di questa limitazione ci siamo in seguito resi conto, anche grazie a nuovi dati non ancora pubblici che solo recentemente abbiamo potuto avere dalla Banca d’Italia. Soprattutto, ci siamo convinti che la questione vada posta in termini diversi, più coerenti con la natura fondamentalmente privata dei rendimenti dell’investimento in istruzione superiore. Nella versione elettronica del libro, così come nell’intervento su Scienza in Rete del 5 gennaio 2013, la affrontiamo quindi chiedendo: ci sono cittadini poveri che pagano per finanziare il servizio offerto dall’università senza usufruirne? Quanti sono? Quanto pagano? E chi riceve il trasferimento da loro effettuato?
Il contributo di Ugo Gragnolati e Emanuele Pugliese ritorna a porre la questione nei termini in cui l’avevamo originariamente formulata. Utilizzando i nuovi dati, che noi stessi abbiamo loro fornito, possono superare la limitazione del nostro primo calcolo e ottengono una risposta diversa da quella che avevamo dato noi. Dati i termini in cui tornano a porre la questione, la loro è la risposta corretta.
Ma quel che loro affermano non è in contrasto con le conclusioni derivanti dal nostro nuovo modo di porre la questione, che crediamo sia quello giusto per giudicare dell’equità del finanziamento dell’università. Quelle conclusioni ci portano a confermare l’idea che ci sia un trasferimento dai poveri ai ricchi; non si tratta però di tutti i poveri, come inizialmente pensavamo e come è giustamente negato dall’analisi di Gragnolati e Pugliese, ma di un gruppo preponderante: quelli che non mandano i propri figli all’università. Vediamo perché.
Il nostro calcolo iniziale si basava sull’integrazione tra i dati del dipartimento delle Finanze e quelli dell’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie, che rileva solo il reddito al netto delle imposte, non quello lordo. La difficoltà dell’integrazione deriva dal fatto che l’Irpef è pagata dai singoli percettori di reddito (e quindi a loro si riferiscono i dati delle Finanze), mentre gli studenti universitari sono associati a famiglie di cui possono fare parte numerosi percettori. Non è agevole quindi una corrispondenza tra le due fonti che consenta di associare univocamente ciascuno studente con le tasse pagate da chi guadagna nella sua famiglia. Il problema può essere superato utilizzando nuovi dati non ancora pubblici, prodotti da ricercatori della Banca d’Italia e che abbiamo potuto avere dopo la stampa del libro: i dati contengono una ricostruzione analitica dell’Irpef effettivamente pagata dai percettori dell’indagine della Banca d’Italia e dei redditi familiari e personali al lordo dell’imposta.
Anche indipendentemente dalla disponibilità dei nuovi dati, crediamo però che l’equità del trasferimento di risorse implicito nel finanziamento pubblico dell’università vada affrontata in un modo diverso, più coerente con la natura dell’investimento in istruzione superiore. Come argomentiamo diffusamente nel libro, i benefici associati all’acquisizione di una laurea sono, almeno in larga parte, individuali: chi ha provato a misurare i benefici indiretti di cui godrebbero i cittadini non in possesso di un’istruzione superiore, semplicemente come conseguenza del fatto che dei loro concittadini hanno invece acquisito quel livello di istruzione, ha trovato poco o nulla. (2) Nel gergo economico, le esternalità associate all’istruzione superiore sembrano essere modeste. Quindi, se vogliamo valutare i benefici netti derivanti dal servizio universitario, una famiglia povera senza figli all’università è in una posizione molto diversa da una che, pur con lo stesso reddito, ha figli universitari; piuttosto che guardare ai trasferimenti tra classi di reddito, sembra più appropriato tenere conto anche della presenza o meno di figli universitari, adottando una classificazione bivariata.
TRASFERIMENTI COMUNQUE INIQUI
Definiamo poveri quei percettori di reddito che guadagnino meno di 31mila euro lordi all’anno e appartengano a famiglie in cui nessun percettore guadagni più della stessa cifra. La soglia corrisponde a circa 1.600 euro netti mensili per un lavoratore dipendente senza familiari a carico. Questi percettori sono (su dati 2010; nella versione elettronica del libro riportiamo questi conti per il 2008) poco meno dell’80 per cento di chi paga l’Irpef in Italia; una parte consistente di essi (che corrisponde al 70 per cento del totale dei contribuenti Irpef) vive in famiglie di cui non fanno parte studenti universitari. Quindi, il 70 per cento dei contribuenti sono relativamente poveri e non ricevono alcun servizio diretto dagli atenei italiani. D’altro canto, pagano il 37 per cento dell’Irpef. Contribuiscono perciò, per il 37 per cento, a finanziare tutta la spesa pubblica, anche quella per l’università. Dati i quasi 7 miliardi annui spesi dallo Stato per gli atenei (ci limitiamo al solo Ffo), possiamo allora concludere che il 37 per cento di questa spesa, ossia circa 2,5 miliardi, è finanziata da contribuenti poveri che non ricevono alcun servizio diretto dal sistema universitario, perché non hanno figli all’università.
Chi beneficia di questo finanziamento? Una parte dei beneficiari sono gli studenti universitari appartenenti alle famiglie relativamente più abbienti, ossia quelle in cui almeno un percettore di reddito guadagna più di 31mila euro lordi. Questi studenti sono quasi il 40 per cento del totale (sempre nel 2010) e quindi le loro famiglie ricevono quasi 1 miliardo di euro all’anno dai percettori poveri che pagano l’Irpef e non hanno figli (o altri parenti conviventi) all’università. A noi sembra indiscutibile che questo sia un trasferimento iniquo.
La restante parte dei 2,5 miliardi va a finanziare gli studenti universitari provenienti invece dalle famiglie composte da contribuenti altrettanto poveri, ma con figli all’università; da queste famiglie proviene circa il 60 per cento degli studenti universitari. Si tratta, in questo caso, di un trasferimento “tra poveri”: da quelli senza a quelli con figli all’università.
È lecito pensare che, essendo un trasferimento tra poveri, non debba destare problemi di equità. Noi lo interpretiamo invece come un trasferimento verso i ricchi di domani. Sappiamo, confortati da un’ampia evidenza nazionale e internazionale, che uno studente universitario guadagna molto dal conseguimento di una laurea, e quindi l’affermazione che gli studenti universitari di oggi siano (mediamente) i ricchi di domani ci sembra abbia una solida base empirica. Quindi anche la seconda componente del trasferimento ci sembra iniqua: se uno di questi studenti universitari provenienti da famiglie povere dovesse diventare in futuro un brillante professionista, per quale motivo avrebbe diritto all’ingente regalo ricevuto da altri poveri che non traggono alcun beneficio diretto dal suo successo professionale?
Comunque la si pensi su questo ultimo aspetto, tuttavia, resta il fatto che una parte preponderante dei contribuenti meno abbienti finanzia l’università senza beneficiarne, e che quasi la metà del trasferimento implicito di risorse va a favore di contribuenti più abbienti. Osserviamo peraltro che la nostra stima di quanto grande sia questa parte è verosimilmente per eccesso, poiché alcuni di coloro che oggi non hanno figli all’università possono averli avuti nel passato, o averli nel futuro. Per fare una valutazione più accurata servirebbero dei dati longitudinali, che non abbiamo. Sappiamo però che la mobilità sociale nel nostro paese è molto bassa, e quindi non crediamo che un’analisi più accurata darebbe risultati significativamente diversi.
Per concludere, l’analisi di Gragnolati e Pugliese giustamente rileva, correggendo nostre precedenti affermazioni, che se consideriamo i poveri nel loro insieme essi beneficiano dal finanziamento pubblico dell’università, perché la progressività dell’imposta è sufficiente a compensare il ridotto utilizzo che fanno di questo servizio. Tuttavia, è solo una parte limitata di questi poveri che realmente riceve un ingente trasferimento netto positivo: i pochi che mandano i loro figli all’università. La parte preponderante paga senza ricevere nulla.
Inoltre, pensiamo che abbia ragione Kenneth Arrow quando sostiene che l’utilizzo di risorse pubbliche nell’istruzione terziaria porta all’effetto paradossale di aumentare la disuguaglianza nella società: chi frequenta l’università proviene prevalentemente da famiglie che già hanno risorse intellettuali maggiori e talento superiore; quindi finanziare i loro studi con denaro pubblico significa dotarle di strumenti che rafforzeranno il loro vantaggio, a spese degli altri. (3)Infine, osserviamo che se anche si volesse effettuare un intervento redistributivo attraverso il finanziamento dell’università, sembrerebbe più trasparente e soprattutto meno aleatorio realizzarlo attraverso tasse universitarie opportunamente differenziate in modo progressivo, cioè che incidano proporzionalmente di più sui redditi familiari più elevati (ben diverse da quelle attualmente previste nelle università pubbliche del nostro paese): nella situazione attuale il grado di trasferimento tra classi di reddito finisce per dipendere dalle decisioni decentrate e indipendenti delle famiglie circa l’iscrizione dei propri figli all’università, invece che da una scelta consapevole ed esplicita del Parlamento, come invece crediamo che dovrebbe essere per ottemperare al dettato costituzionale.
(1) Andrea Ichino e Daniele Terlizzese, Facoltà di scelta, Rizzoli, 2013.
(2) Una stima per l’Italia è in Federico Cingano e Piero Cipollone, “I rendimenti dell’istruzione”, QEF, Banca d’Italia, 2009; un’altra, fatta per numerosi paesi, è in George Psacharopoulos, “Returns to Investment in Higher Education: A European Survey”, 2009.
(3) Kenneth Arrow, Education Economics, Volume 1, Issue 1, 1993

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