fonte:"con in faccia un po' di sole!
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Creato Lunedì, 20 Gennaio 2014 19:53
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Scritto da Nico
“Nella pratica quotidiana dei campi
di sterminio trovano la loro realizzazione l’odio e il disprezzo diffusi
dalla propaganda nazista. Qui non c’era solo la morte, ma una folla di
dettagli maniaci e simbolici, tutti tesi a dimostrare e confermare che
gli ebrei, e gli zingari, e gli slavi, sono bestiame, strame,
immondezza. Si ricordi il tatuaggio […] che imponeva agli uomini il
marchio che si usa per i buoi; il viaggio in carri bestiame, mai aperti,
in modo da costringere i deportati a giacere per giorni nelle proprie
lordure; il numero di matricola in sostituzione del nome; […] l’empio
sfruttamento dei cadaveri, trattati come una qualsiasi anonima materia
prima, da cui si ricavavano l’oro dai denti, i capelli come materiale
tessile, le ceneri come fertilizzanti agricoli; gli uomini e le donne
degradati a cavie, su cui sperimentare medicinali per poi sopprimerli”
Sono le parole dure e agghiaccianti di
Primo Levi, chimico italiano tristemente noto per le barbarie subite al
campo di concentramento di Auschwitz. Proprio non molto tempo fa ho
letto, finalmente, il suo libro “Se questo è un uomo”. Già
sento apostrofarmi: “ma possibile che ancora non lo avevi letto?”.
Mancanza grave, lo so. Chiedo venia, ma ai tempi delle scuole
dell’obbligo non è che fossi molto appassionato di lettura. Solo dopo
aver finito le scuole superiori mi sono messo a leggere cose più
impegnate e alcune di queste riguardavano l’eccidio degli ebrei.
Leggere il libro di Levi è stata come
una lezione di vita. Ciò di cui parla sembra così distante, così
irrazionale che non riesci a concepire siano successe giusto 60 anni fa.
E’ come se le collocassi in un’altra epoca storica, molto lontana.
Invece no. E’ tutto reale e di un passato molto prossimo a noi. Lo si
può ancora percepire nei racconti dei nostri nonni. La guerra ha fatto
paura e lo fa ancora, a chi l’ha vissuta.
Anche se siamo in una zona periferica
dai centri nevralgici dello Stato, i nostri territori sono stati
coinvolti da scontri più o meno sanguinosi (come, ad esempio, l’
eccidio di Montalto), e dalle pagine più nere della storia d’Italia.
Qualche anno fa, andando a documentarmi
su questo periodo storico, scoprì, con mia grande sorpresa, che anche
nel Fermano erano presenti dei campi di internamento e concentramento.
Ce n’erano due: il campo di prigionia
PG70 di Monte Urano e il campo di prigionia PG59 di Servigliano (se vuoi
conoscere la storia della città di Servigliano leggi l’altro articolo:
“Servigliano: storia di due pontificati”).
Il primo in realtà era collocato nella
frazione di Girola di Fermo (Fermo) ed è stato successivamente
riconvertito in una conceria, la SACOMAR. Oggi, dismessa anche questa,
il sito è in abbandono, in attesa della sua destinazione finale.
Il secondo campo di prigionia era
situato davanti all’ex stazione ferroviaria di Servigliano. Oggi è
presente in quella stessa area il “Parco della Pace” fortemente voluto
dall’amministrazione comunale a ricordo di ciò che era stato e, nell’ex
stazione ferroviaria, è stato collocato il “Museo della Memoria”
realizzato per ripercorrere le vicende avvenute in quei terribili
giorni.
Per il campo di prigionia di Fermo (o
Monte Urano come lo identificano le carte), non si sa molto. Sembra sia
stato inaugurato nell’Agosto del 1942 e al suo interno furono internati
prigionieri di diverse nazionalità fino alla massima capacità di 8000
presenze. Questo campo, come del resto anche quello di Servigliano, era
destinato al concentramento e smistamento dei malcapitati. I prigionieri
stavano qui per un certo periodo e poi erano inviati ai lager tedeschi,
previo passaggio obbligato per i campi di raccolta di Suzzarra
(Mantova) o Fossoli (Modena).
Proprio per questo motivo, molti degli
internati cercavano la fuga nelle campagne marchigiane, prima di essere
trasferiti altrove, sperando di rifugiarsi in qualche casolare grazie
alla benevolenza degli abitanti del luogo. E’ quello che accadde anche a
Ken de Souza aviatore inglese che arrivò al campo di Fermo sul finire
del 1942: “su alcuni camion attraversammo campagne meravigliose dove
vive gente che nutre grande amore per i sofferenti”. Qui sotto c’è il
video che racconta la sua storia (il racconto parte dal minuto 22.20)
La storia del campo di prigionia di Servigliano, invece, è differente e in un certo senso più complessa.
Già durante la prima guerra mondiale era
necessità dello Stato Italiano trovare delle aree idonee per la
costruzione di campi aventi la funzione di ospitare prigionieri di
guerra. Il comando di Corpo d’Armata di Ancona selezionò le aree idonee e
tra queste fu scelta anche Servigliano. Per quale motivo?
Perché i luoghi da adibirsi a campi dovevano avere, come requisiti l’”essere
poste fuori dalle zone di guerra, in terreno pianeggiante, in plaga
salubre e ben fornita d’acqua, lontana dai centri industriali ed infine
facilmente sorvegliabile”. Inoltre è stato notato che a Servigliano “non
vi sono addensamenti di masse operaie e prospera invece l’artigianato:
non si ha traccia di quelle agitazioni proletarie che altrove, sotto la
larva di miglioramenti economici, nascondono sovente propositi di
sovvertimento politico e sociale”.
Quindi nell’autunno del 1915 si iniziò
la costruzione. Furono occupati 3 ettari di terreno e costruite 32
baracche e ognuna di queste poteva contenere 125 prigionieri in 300 mq
di superficie. Inoltre tutto il perimetro del campo fu recintato da un
muro alto 3 metri sopra al quale fu posto un filo spinato.
I primi prigionieri confluirono al campo
nell’agosto 1916 e furono rimpatriati definitivamente nel dicembre
1919. In quel lasso 22 prigionieri morirono per varie malattie.
Alla fine della guerra, mentre il campo
era in stato di abbandono, l’amministrazione comunale di Servigliano
fece più volte richiesta al Ministero della Guerra per poter utilizzare e
sfruttare in maniera più produttiva l’area. Ma le risposte furono
sempre negative.
Con l’avvento del fascismo, si capì, di
nuovo, che l’area sarebbe stata ideale per un campo di concentramento.
Così si iniziò a rispristinare le baracche e le mura, ma la zona era
stata già in parte compromessa. Infatti, nel 1935, una parte del campo
era stato destinato alla realizzazione di un campo sportivo voluto dal
dopolavoro comunale, ente ricreativo creato sempre dal fascismo. Quindi,
la massima capacità del campo era attestata sulle 2000 unità.
Il campo di concentramento e smistamento
(PG59) fu ufficialmente riaperto il 5 Gennaio 1941. I prigionieri
iniziarono ad arrivare dal febbraio 1941 per poi essere trasferiti,
durante l’anno, in altri campi d’Italia. Nel gennaio 1942 il campo
rimase vuoto, ma dal mese successivo in poi arrivarono continuamente i
prigionieri alleati fino a raggiungere la massima capacità nel maggio
del 1942.
Fino al 6 settembre del 1943 nell’area
si registrò un continuo via vai di prigionieri: chi spediti altrove, chi
appena arrivati, chi fermi lì da più di un anno. Ma il 6 settembre
tutto cambiò. E’ il giorno dell’armistizio del Generale Badoglio il
quale dichiara che “ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo”.
Questo momento segna anche la storia del campo di prigionia PG59 di
Servigliano. Infatti la sera del 14 settembre, 6 giorni dopo
l’armistizio, tutti i prigionieri internati fuggirono in massa. Nella
situazione confusa di quella sera alcuni detenuti riuscirono a fare un
buco nel muro del campo e iniziarono a fuggire. Alla fine tutti ce la
fecero a scappare anche grazie alla prontezza del capitano medico Dereck
Millar che si prese la responsabilità dell’evacuazione.
Dopo la fuga, anche delle guardie, il
campo rimase completamente abbandonato e nei giorni successivi fu
ripetutamente saccheggiato sia dagli ex prigionieri che dalla
popolazione locale che si trovava in seria difficoltà economica.
Ormai la guerra sembrava terminata. Dopo
l’armistizio si pensava che la battaglia sarebbe finita presto. Invece
proprio in quel momento cominciò la fase più cruenta della lotta. La
confusione era grande: non si sapeva bene contro chi combattere. Stavamo
con gli Alleati o con le Potenze dell’Asse? In questo marasma il
comando tedesco locale decise di utilizzare l’area di Servigliano
destinata finora ad ospitare i prigionieri come campo per “l’internamento degli ebrei sia italiani che stranieri”: era il 7 ottobre 1943. L’ordine era stato chiaro: “tutti
gli ebrei internati e liberi, cittadini italiani e stranieri, comunque
residenti o soggiornanti in questa provincia, devono essere al più
presto tratti in arresto e internati nel campo di concentramento di
Servigliano”. Iniziarono, perciò, a confluire tutti gli ebrei
rastrellati nella provincia di Ascoli Piceno: nel marzo del 1944 erano
presenti 61 ebrei più altri 245 prigionieri di guerra. La vita
all’interno del campo era pessima, come testimonia anche Carla Viterbo
Bassani una detenuta a Servigliano. “[…] il vitto era davvero cosa
penosa: si trattava di fagioli e piselli marci che conservavano nei
sacchi. Qualche volta, tenuto conto della scarsità di cibo,
autorizzavano qualcuno di noi ad andare per le case ad elemosinare un
pezzo di pane, sempre accompagnato dalle guardie. […] Era penoso
chiedere da mangiare ma a volte qualche cosa si riusciva a ricevere.”
Le giornate procedevano così, finché il 3
maggio 1944 alle 22.30 un aereo alleato bombardò il campo creando una
breccia nel muro di cinta e distruggendo anche due baracche. Perse la
vita un’internata e gli altri scapparono nelle campagne approfittando
del momento. I militari addetti alla sorveglianza cominciarono subito le
ricerche dei fuggitivi e 31 furono catturati mentre 19 riuscirono a
dileguarsi in tempo (come Carla Viterbo Bassani). I catturati furono
deportati la sera stessa a Fossoli e il 16 maggio, insieme ad altri
prigionieri ebrei di altre località, furono inviati ad Auschwitz. Solo 3
sopravvissero alle infamie che si perpetrarono nei lager tedeschi.
Alla fine della guerra, dal giugno del
1945, al 1955, l’area, dopo i lavori di risistemazione delle strutture
interne, divenne un “Centro Raccolta Profughi”. Infatti nell’Europa le
dittature non erano finite (ad esempio c’era Tito in Iugoslavia) e c’era
bisogno di accogliere in qualche maniera i fuggiaschi dei loro paesi.
Dalla fine del 1955 al 1977 il campo
rimase abbandonato fino ad essere convertito nel centro polisportivo
“Parco della Pace” tutt’ora presente.
Per approfondire queste vicende vi consiglio di visitare la Casa della Memoria all’ex stazione di Servigliano.
Info:
Casa della Memoria,
via E. Fermi, Servigliano (FM). Tel.: 0734.750583. Orari di apertura:
dal lunedì al venerdì: 9.00 - 14.00; sabato: 15.00 - 20.00.
Fonti:
“Se questo è un uomo” | Primo Levi | Einaudi | Torino | 1958.
“Il Campo di Servigliano 1915 – 1955. La memoria di un luogo che testimonia le tragedie del Novecento” | Associazione Casa della Memoria Servigliano | 2005.
http://www.raistoria.rai.it/