Vivalascuola. Integrazione al 30%Posted by
giorgiomorale on February 1, 2010
Gli alunni figli di genitori stranieri frequentanti le scuole italiane, nell’anno scolastico 2008/09, sono 628.937 su un totale di 8.943.796 iscritti (7%). L’aumento annuale è stato di 54.800 unità (circa il 10%); l’incidenza più elevata si registra nelle scuole elementari (8,3%). Di questi 1 ogni 6 è rumeno, 1 ogni 7 albanese e 1 ogni 8 marocchino, ma si rileva di fatto una gran varietà di nazionalità. Molti alunni stranieri sono tali solo all’anagrafe, essendo in buona parte nati in Italia e vissuti per tutta la vita con coetanei italiani: per costoro la lingua non è un problema. Quasi 4 su 10 (37%) sono nati in Italia, mentre la percentuale è di 7 su 10 (71,2%) nella scuola dell’infanzia. (da
qui)
Che cosa dice veramente?Analisi della CM “Indicazioni e raccomandazioni per l’integrazione di alunni con cittadinanza non italiana”di Daniela Bertocchi
La circolare Gelmini sulle “quote” (
C.M. n. 2, dell’8/1/2010, della Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e per l’Autonomia Scolastica, a firma del Direttore Generale, Mario G. Dutto), ha immediatamente suscitato prese di posizione diverse, anzi opposte, puntualmente riportate sulla stampa già il 9 gennaio, il giorno successivo alla pubblicazione della circolare stessa.
Si è subito andati da accuse pesanti di razzismo, di ghettizzazione (un titolo per tutti:
“Scuole chiuse” per immigrati, da Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio) ai plausi scontati della Lega e dei suoi organi di stampa, che ha affermato di vedere in questo provvedimento la realizzazione della proposta Cota sulle classi ponte (e la Repubblica del 10 gennaio, nelle pagine di Milano, riporta l’affermazione dei Giovani padani: “Ora è chiaro che la scuola non deve essere multiculturale, ma legata alla nostra identità”).
Quello che non è stato fatto è di riferire esattamente che cosa dice la famosa, o famigerata, CM: si tratta di un documento articolato e complesso, di 9 pagine, che va letto con attenzione e senza pregiudizi ideologici, in un senso o nell’altro. Ne rendiamo conto qui, procedendo, anche se sinteticamente, paragrafo per paragrafo.
1. Si parte dall’analisi della situazione attuale, ormai strutturale, di una forte presenza nelle scuole “di alunni di diversa provenienza sociale, culturale, etnica,e con differenti capacità ed esperienze di apprendimento”. Questa varietà impone l’adozione di metodologie e strumenti adeguati e il superamento delle tecniche educative tradizionali. Per garantire “effettive condizioni di parità e di generalizzata e piena fruizione del diritto allo studio” è necessario “l’orientamento del flusso delle iscrizioni”e l’adozione “di criteri di equa distribuzione della popolazione scolastica”.
2. Le classi formate da alunni con livelli di scolarizzazione fortemente disomogenei sono a rischio di parziale o totale insuccesso formativo. Le criticità che comporta un’elevata percentuale di alunni non italiani in una classe consistono in: alti tassi di dispersione e ritardi degli alunni migranti; scarsa conoscenza della lingua italiana, comunque non adeguata come strumento di studio; necessità di prevedere moduli di apprendimento differenziati; presenze di culture diverse e loro impatto sulla cultura italiana. Per risolvere queste criticità è necessario prevedere una strategia di concertazione che coinvolga Enti locali, Prefetture, USR, scuole.
3. E’ dunque necessario “programmare il flusso delle iscrizioni, fissando dei limiti massimi di presenza nelle singole classi di studenti stranieri con ridotta conoscenza della lingua italiana”. In sintesi, in ogni classe la percentuale di questi studenti stranieri non potrà superare il 30%, percentuale che può essere aumentata o ridotta dal Direttore generale dell’USR, in presenza di particolari condizioni. Più avanti nel testo si precisa quali siano queste condizioni:- Alunni stranieri nati in Italia, con adeguata competenza linguistica- Particolari strutture di supporto o scuole che abbiano consolidate esperienze di provato successo formativo- Ragioni di continuità didattica, ad esempio in Istituti Comprensivi- “Stati di necessità provocati dall’oggettiva assenza di soluzioni alternative”.Questo limite del 30% entra in vigore dal prossimo anno scolastico per le prime classi di ogni ordine e grado (compresa la scuola dell’infanzia).
4. Gli USR dovranno quindi giungere a veri e propri “patti territoriali” che coinvolgano tutti gli attori istituzionali interessati, realizzando intese fra Amministrazione scolastica, Prefetture, Province, Comuni, USP, scuole, anche modificando l’attuale bacino d’utenza di alcune scuole; sensibilizzare le scuole paritarie rispetto all’accoglienza di studenti stranieri; provvedere azioni di orientamento per studenti e genitori, in particolare nel passaggio da un grado di scuola all’altro; finalizzare risorse disponibili a servizi quali quelli dei mediatori culturali.
Le scuole da parte loro devono realizzare accordi di rete, che prevedano anche l’impiego in comune di risorse professionali e strumentali.
In via ordinaria gli alunni stranieri saranno iscritti alla classe corrispondente alla loro età anagrafica, ma possono essere anche assegnati a classi diverse sulla base di criteri definiti dal Collegio docenti e attraverso la verifica delle competenze linguistiche in ingresso.
Le scuole dovranno prevedere dal prossimo anno iniziative di alfabetizzazione linguistica (con le risorse della legge 440/97), con attivazione di laboratori linguistici e percorsi personalizzati di lingua italiana, utilizzo della quota di flessibilità del 20% per l’alfabetizzazione/recupero/potenziamento della lingua italiana, anche utilizzando risorse di rete. Per gli stranieri neoarrivati si potrà prevedere un periodo dedicato alla familiarizzazione con la lingua italiana e anche la frequenza a corsi propedeutici nei mesi di giugno, luglio, inizio settembre. Per l’alfabetizzazione si potranno anche utilizzare, nella scuola secondaria di 1° grado, le due ore destinate all’insegnamento della seconda lingua comunitaria.
5. Infine, viene indicato il ruolo delle scuole polo, della task force regionale e del gruppo nazionale di lavoro.
Gli aspetti “indolori” e quelli “pericolosi” della CMVa subito detto che la CM è per molti aspetti ambigua, come spesso avviene nei provvedimenti Gelmini: infatti, se da una parte, nel suo stesso titolo, il fine precipuo dichiarato è quello di una migliore integrazione e inclusione degli studenti stranieri, d’altra parte risulta evidente che la prima finalità è quella di mettere precisi paletti, di segnare precisi confini per l’inserimento di questi studenti.
In effetti il “pericolo” più grave della CM sta nel “non detto”: non si dice mai che il plurilinguismo e la pluri/interculturalità in una classe sono aspetti positivi, che addirittura migliorano l’andamento complessivo della classe stessa (o meglio, vi si accenna in una nota di una riga e mezzo in corpo microscopico), ma gli studenti “stranieri” sono sempre associati a termini come “problematicità”, “criticità”, “incidenza negativa”, “insuccesso scolastico”, ecc. ecc. Non si tratta quindi di descrivere e anche “normare” una situazione che ha luci e ombre, ma di risolvere un problema: quello degli studenti stranieri, che finisce inevitabilmente “per riverberarsi sul complessivo processo di apprendimento della intera classe in cui essi si trovano inseriti”.
Peraltro, anche il livello di “normatività” della CM (e quindi del rispetto dell’autonomia delle scuole) è ambiguo: se nel titolo si parla di “indicazioni e raccomandazioni” e se nel primo paragrafo si parla di “orientamento dei flussi delle iscrizioni”, nel terzo paragrafo si afferma che “è necessario programmare il flusso delle iscrizioni” e “fissare dei limiti massimi di presenza nelle singole classi di studenti stranieri”, il che è diverso da orientare. E la deroga a questi limiti è affidata non alla scuola autonoma, ma solo al Direttore generale dell’USR.
Perfino gli elementi più positivi della CM, come l’affermazione che in classi eterogenee è necessario adottare una metodologia innovativa, sono lasciate cadere, senza nessuna ripresa. Eppure la professionalità del docente, lo sappiamo anche dalle ricerche internazionali, è il singolo fattore maggiormente incidente sul successo formativo.
Un altro elemento, ricordato solo in nota e non sviluppato, è il seguente: “Non va trascurato il diverso approccio con cui non pochi studenti stranieri si accostano allo studio, avvertito da essi come un’occasione di crescita sociale ben più di quanto accada oggi, a differenza di ieri, in fasce notevoli delle giovani generazioni.” Significa che forse che i “nostri” studenti potrebbero utilmente imparare qualcosa, come valori e atteggiamenti, dai loro compagni stranieri? Sembra di sì, e se è così, perché non sviluppare meglio questo aspetto?
E veniamo all’ultimo punto, forse il più importante: tutto il discorso della “parità di opportunità” offerte agli studenti stranieri cade, se non si realizzano concretamente le “iniziative di alfabetizzazione linguistica” specificamente previste al paragrafo 3d. Le indicazioni date in questo paragrafo in molti punti riprendono peraltro, correttamente, buone pratiche già esercitate e diffuse proprio nei territori a più alto tasso di immigrazione, come ad esempio la Lombardia. Il problema, come immediatamente notano le “persone di scuola” (facciamo qui riferimento a una serie di articoli pubblicati nei giorni scorsi su
Scuola Oggi, in particolare quelli a firma di
Rita Garlaschelli;
Fiorella Farinelli;
Elio Bettinelli e Gianni Gandola) è che i laboratori linguistici e i percorsi personalizzati richiedono risorse, sia finanziarie sia umane. La CM formula proposte oggettivamente contraddittorie con i tagli di personale, la scomparsa delle compresenze (che permettevano davvero percorsi personalizzati) e la diminuzione di mediatori culturali e di facilitatori. Anche la citata legge 440 è definita da
Tecnica della Scuola “un pozzo di san Patrizio puramente virtuale (per il 2009 una scuola di medie dimensioni riceverà meno di 5mila euro, mentre per il 2010 è prevista una decurtazione del 15-20%)”.
Come giustamente notano Bettinelli e Gandola, a proposito della Provincia di Milano, “il problema è che da 700 docenti alfabetizzatori (tanti erano una decina di anni fa i docenti assegnati alla dotazione dell’organico aggiuntivo della sola provincia di Milano nelle scuole statali dall’elementare alle superiori) il loro numero si è ridotto progressivamente nel corso del tempo prima a 500 posti, poi a 240, poi a 115 fino ad un numero oscillante tra i 90 e i 100 negli ultimi anni. Tutto questo a fronte di un aumento esponenziale ed inversamente proporzionale di alunni stranieri!”
Verrebbe da dire, anche se la frase non è certo elegante, che ancora una volta il Ministro Gelmini ci propone di “fare le nozze con i fichi secchi”.
Sembra opportuno, a questo proposito, senza voler fare dell’ideologia, citare alcuni punti dell’interpellanza urgente presentata il 12 gennaio da Parlamentari del PD, in cui si chiede al Ministro, tra le altre cose, che cosa il MIUR intenda fare per:
a) “considerati gli ingenti tagli operati alla scuola nell’ambito della manovra di cui al decreto-legge n. 112 del 2008, sostenere concretamente le scuole italiane e gli insegnanti con finanziamenti straordinari per corsi di lingua e cultura italiana;[…]
c) finalizzare in modo puntuale gli interventi di formazione in servizio degli insegnanti, anche in ragione della necessità di una formazione mirata alle «metodologie di intervento e alle misure organizzative e didattiche di sostegno all’integrazione», e chiarire quali siano le risorse previste e da dove verranno attinte;
d) sostenere concretamente, e attraverso quali risorse economiche e di conoscenza, le istituzioni scolastiche autonome nell’attivare moduli intensivi, laboratori linguistici, percorsi personalizzati di lingua italiana per gruppi di livello sia in orario curricolare (anche in ore di insegnamento di altre discipline) sia in corsi pomeridiani realizzati grazie all’arricchimento dell’offerta formativa, nonché la possibilità per gli allievi stranieri di frequentare un corso intensivo propedeutico all’ingresso nella classe di pertinenza anche in periodi (giugno/luglio/inizio settembre) in cui non si tiene la normale attività scolastica previsti dalla circolare;
e) chiarire quale sia il progetto strategico complessivo del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca per gli alunni immigrati entro cui si colloca la circolare 2/2010 e se nella sua stesura si sia tenuto conto della formazione dei docenti all’insegnamento dell’italiano come seconda lingua promosso dal Ministro Moratti che aveva coinvolto un migliaio di docenti, nonché se si sia tenuto conto del progetto di insegnamento dell’L2 varato all’inizio del 2008 e dei percorsi di eccellenza messi in atto dalle istituzioni scolastiche spesso in rete con comuni, province, università e privato sociale.”
Qualche conclusione… dalla parte degli italiani di oggi, e di quelli di domani Di per sé, non c’è nulla di scandaloso, e mi pare neppure di particolarmente razzista, nel cercare di governare il flusso delle iscrizioni degli studenti stranieri, in modo da ottenere classi più equilibrate dal punto di vista delle competenze linguistiche. Bisogna pur dire che se molti di noi hanno vigorosamente rifiutato le classi ponte, è stato anche sulla base del principio glottodidattico per cui la lingua si apprende nell’interazione e nello scambio con i pari. Ma se in una classe l’85% dei bambini o dei ragazzi non è italofono, con chi questi studenti interagiranno in italiano? Un italiano sufficientemente “autentico” e “ricco”, non ridotto a una pura lingua franca di scambio tra rumeni e cinesi, ecuadoregni e marocchini?
Ma va detto che la scelta diventa pericolosa e “razzista” se gli studenti e le studentesse di altra lingua e cultura verranno lasciati ancora una volta soli e sole (come avviene oggi soprattutto nella scuola secondaria di 2° grado) di fronte ad una didattica trasmissiva, di cui essi possono essere solo frustrati spettatori. In altri termini la scelta voluta dal Ministro ha un senso se si traduce in azioni concrete di accoglienza, riconoscimento, alfabetizzazione, inclusione, sviluppo della persona e successo formativo, azioni che, lo abbiamo già detto, necessitano di risorse, oltre che di buona volontà da parte di tutti, italiani e non. Ne ha un altro, opposto, se si tratta di togliere di mezzo, o comunque limitare, un elemento di fastidio, che “rallenta i ritmi dello svolgimento del programma” e permette al docente di continuare a stare seduto in cattedra, a interrogare, a seguire il libro di testo come unico strumento.
Ancora: sappiamo tutti che ci sono scuole che accettano, anzi accolgono nel vero senso della parola, i ragazzi stranieri e, ancora prima, i loro genitori fin dal momento dell’iscrizione; altre che, con pretesti di vario tipo, fanno di tutto per evitare l’iscrizione di studenti non italiani. Spesso queste scuole si trovano nella stessa zona, magari fianco a fianco. La razionalizzazione del flusso delle iscrizioni in questi casi è non solo accettabile, ma doverosa.
Però non dovrà mai succedere che un padre o una madre, che cercano di iscrivere i propri figli, vengano rimandati da una scuola all’altra, “perché qui, signora, ci sono troppi stranieri! Legge dice 30%, noi già troppi”. Il diritto dei minori all’istruzione è un diritto inalienabile, oltre ad essere una grande occasione non solo per il migrante, ma anche per il paese che l’accoglie e che ha tutto l’interesse che i suoi cittadini di domani siano ben alfabetizzati e istruiti.
Il vero problema non è, se non in casi eccezionali, il “tetto”: Rita Garlaschelli, che di scuola si intende, dice che nella Provincia di Milano i casi di scuole/classi con più del 30% di stranieri si contano probabilmente sulle dita di una mano (ma anche se pochi, questi casi andranno presi in considerazione e risolti con buonsenso e flessibilità).
Il vero problema è quello di capire se questa CM contribuirà a far sì che la scuola formi meglio e in modo più equo i cittadini, gli Italiani di oggi e quelli di domani. O sarà un pretesto di cui farsi scudo perché tutto resti allo status quo o addirittura ci siano arretramenti.
Una scuola sempre più povera, sempre più precaria, con insegnanti a volte eccezionali, ma comunque poco formati istituzionalmente e socialmente poco considerati, è una scuola che rischia di chiudersi su se stessa, di ritornare ai buoni vecchi tempi quando tutti sapevano l’italiano (assolutamente falso”! Nei “buoni vecchi tempi” degli anni Sessanta e Settanta la maggior parte dei ragazzi parlava in dialetto, e non certo in un dialetto locale, almeno al Nord) e il professore era il professore. Insomma, una scuola noiosa, vecchia, strapaesana, chiusa e autoreferenziale: una scuola che non vogliamo.