Non
è forse un caso che l’antisemitismo abbia colpito uno dei popoli che nella
storia ha sempre avuto grande attenzione all’educazione, alla costruzione e al
mantenimento di scuole, un popolo che ha dato molto alla nostra civiltà per
quanto riguarda le scienze, la filosofia, la poetica, l’arte.
Un
popolo del libro che è stato anche un popolo dell’alfabeto.
Ad
Auschwitz è stata trovata una pietra anonima, dove con un chiodo uno
sconosciuto ha lasciato scritto "Chi mai saprà quello che mi è capitato
qui?".
Penso
a quell’uomo o donna che l’ha scritto, penso che di lui o lei non sappiamo
nulla, non il colore degli occhi, il carattere, la famiglia, sappiamo solo del
suo lacerante dolore di credere di aver sofferto senza poterlo raccontare a
nessuno.
Questa
è la grande tragedia della Shoah: il rischio dell’amnesia, la banalizzazione
della violenza, i grandi numeri (ricordo: 5 milioni e ottocento mila cittadini
ebrei assassinati nei lager) così astratti e assurdi da diventare inenarrabili.
Il
tempo può rendere il tutto opaco, sfilacciare la riflessione.
Questa
pietra, invece, silenziosa, ma assordante nella tragedia peggiore -quella di
essere dimenticati- ci spinge a ricordare, a fare di questo Giorno della
Memoria, che per il terzo anno si celebra nel nostro Paese, un momento alto di
parola.
La
Shoah è lo sterminio di milioni di persone colpevoli di essere ebrei,
omosessuali, testimoni di Geova, zingari, disabili, deportati civili e
militari, ci porta ad un ricordo di ciò che è perfino indicibile nella sua
enormità, ma che (come insegna Annah Arendt) rischia nella sua banalità del
male di essere altre volte ripetuto per nuovi odi razziali, o di essere
revisionata come si dice oggi, e perfino giustificato.
All’ingresso
del lager di Mauthausen c’è una targa che elenca, nazione per nazione, le
vittime lì assassinate. I numeri impressionano (ci sono anche migliaia di
italiani).
I
grandi numeri della targa estraniano la percezione della realtà. Nella dolce
vallata danubiana il posto pare surreale. Qualche ragazzo lo potrebbe scambiare
per il set di un film dell’orrore. Ma poi, quando si arriva ai forni crematori
tutto ci crolla addosso. Nelle migliaia di fotografie appiccicate dai parenti
(foto di belle persone in pose degli anni 30) e nelle dediche (a mio papà, a
mia zia Maria, alla nonna Rebecca) la vita ci viene addosso con tutto il suo
precitato di dolore vissuto veramente, corpo per corpo, anima per anima, storia
per storia. E’ un dolore così grande da diventare inspiegabile.
Questo
è un altro aspetto della memoria che non dobbiamo perdere sulla Shoah: il
ricordo individuale di ognuno dei deportati, la vita spezzata, gli affetti
lacerati, il lutto. Perfino il senso di colpa di chi si è salvato, così bene
descritto da Primo Levi.
Sappiamo
che, per molti ex deportati, era difficile il racconto di ciò che era stato per
la colpa di essersi salvati, l'ultimo cinico lascito della violenza psicologica
del nazismo.
Anche
nei gulag staliniani è successa la medesima cosa, con l’aggiunta per molti di
sentirsi colpevoli due volte: come traditori del comunismo e come salvati dalla
morte.
No,
dobbiamo evitare di credere che la Shoah sia uno scherzo della storia, o peggio
considerarla storicamente più un fatto psichiatrico che un evento politico e
culturale.
Non
è così. Verrebbe da dire, purtroppo.
L’antisemitismo,
come tutte le forme razziste e totalitarie, ha permeato la civiltà occidentale
e a periodi riemerge in forme sempre diverse, ma comuni negli istinti e negli
effetti. Possiamo correre il rischio di crederlo un fatto endemico, quasi
normale.
Anzi,
è spesso dalle barzellette e dalle ironie che si inizia.
L’antisemitismo
è una ferita storica della cultura europea e mondiale, della sub-cultura che
fonda nella razza, nel mito del "sangue e terra", dell’
"haimat", la sub-ragione di una violenza senza limiti, del disprezzo
indicibile, ci fa vergogna di chiamarsi umani.
Ma
è della nostra civiltà lo scontro continuo tra violenza e pace, l’incontro e lo
scontro continuo tra popoli e differenze. La nostra civiltà è sempre ad un
bivio.
La
convivenza e la tolleranza sono da conquistare ogni giorno.
La
Shoah è un evento che ha ridotto al rango di non persone, e al destino di fumo
che usciva dai camini, milioni di cittadini ebrei con il solo delitto di essere
tali.
L’antisemitismo
non nasce con il nazismo e il fascismo, viene da lontano. E, come tutti i
teoremi delle razze e delle purezze delle razze, è sempre dietro l’angolo.
Per
questo il Giorno della Memoria ha anche un valore forte di ritorno ai valori
della nostra civiltà, quando essa sa usare parole di pace, di tolleranza, di
rispetto reciproco, di comune sentire il destino del mondo. Insomma, quando la
nostra civiltà pensa al respiro dei nostri bambini e pensa bene al loro futuro,
profetando per le tante Sare, Davide, Mattia, Samuele, Raffaele, un domani che
non sia come ieri.
Ma
come parlare ai nostri bambini e ai nostri ragazzi della Shoah? Come evitare il
rischio di una stanca retorica, di passare per vecchi visionari?
A
noi, nati vicini alla seconda guerra mondiale, il ricordo dell’Olocausto parla
cronaca viva, accende emozioni. Abbiamo anche avuto storie di parenti,
conoscenti, abbiamo letto Primo Levi, sappiamo di Simon Wiesenthal, pianto
vedendo Schindler List.
Ma
a loro, nati 50 anni dopo, con altra storia passata sotto i ponti, e spesso una
storia che ha ripetuto nuovi empiti razzisti, come ricordare perché diventi
segno di civiltà, di cultura vissuta, striscia che rimane nel futuro perché non
accada più?
D’altra
parte falò di libri e di scuole, assieme ai genocidi, sono accaduti ancora
recentemente, è successo anche in Kossovo, in Cambogia, in Ruanda, in
Afganistan.
Devo
dire che parlare della Shoah è meno facile di quanto si creda, è necessario che
la scuola sappia trovare i modi giusti, evitando parate e parole retoriche.
Penso,
per esempio, che il Giorno della Memoria debba essere effetto –non causa- di un
insegnamento che nel suo insieme (non solo parlando di storia) viva, non
solo dica, tolleranza, rispetto reciproco, accoglienza dell’Altro da noi.
Il
modo migliore perché il Giorno della Memoria resti nel tempo, è di farlo vivere
giorno per giorno. Farlo vivere facendo vivere nei bambini e nei ragazzi il
piacere della comunità e il bello della differenza.
Ma
questo non basta. Bisogna sapere di più. Penso che si debbano far parlare le
fonti, i documenti, conoscere direttamente ciò che è stato. Soprattutto aiutare
i ragazzi a capire che non si tratta di un film, né di un evento virtuale, ma
di verità veramente accadute.
Dobbiamo,
soprattutto, con loro sforzarci di rispondere alle domande difficili: perché è
successo, come si deve fare perché non accada più.
Per
questo abbiamo bisogno di storie, di racconti, di documenti che permettano a
quella pietra anonima di Autschwitz di parlarci ancora, di stringere con
affetto quell’anima nel vento, di parlare per non dimenticarla.
Noi
non dimenticheremo. Ma dobbiamo fare della memoria un passo per il domani.
Per
queste ragioni, voglio portare qui un piccolo contributo di studio (vorrei dire
di "memorie") per non dimenticare, per capire di più.
Visto
il mio lavoro, parlerò del rapporto tra scuola e Shoah. Vi suggerisco a questo
proposito un libro di Pietro Morpurgo, Le Scuole e gli Ebrei, che mi ha
dato non poche riflessioni sull’odio dell’antisemitismo per le scuole e il
pluralismo culturale.
Da
questo libro prendo tre brevi spunti, come contributo a questo sforzo di
memoria collettiva che questa Giornata ci chiede.
1.
l’antisemitismo e l’odio per le scuole
Il
termine ‘antisemitismo’ nasce in Germania nel 1879 come bandiera di una
propaganda che teorizzava la riduzione dei diritti civili diffusi dalla Rivoluzione
Francese che portarono, tra l’altro, a un’espansione del sistema scolastico
pubblico.
Il
primo luogo di inseminazione fu appunto nelle scuole, insegnando una visione
della società umana razzista. La scuola fu il luogo elettivo dove far crescere questa
visione.
Non
era un caso, poiché proprio ai bambini e alle scuole gli ebrei avevano dedicato
infinita attenzione, come dimostra anche il versetto talmudico che ho citato
all’inizio. In questo passo di una discussione talmudica dei tempi dei
patriarchi, si avverte la profondità dell’atteggiamento verso gli studi del
mondo ebraico. L’amore del sapere per sè stesso era una ragione dello
straordinario valore attribuito all’educazione.
Profonda
era la coscienza che la vita stessa della comunità dipendesse dalla diffusione
del sapere. Fu per questo che, pochi anni prima della distruzione del Tempio
(ca. 589 a. C.), fu stabilito un piano organico per l’istruzione: in ogni città
vi dovevano essere maestri che avrebbero dovuto insegnare ai giovani dall’età di
6 anni sino a 16 anni.
Come
si vede –e senza ironia con il presente- un discorso millenario vivo ancora
oggi.
La
dedizione ebraica nell’insegnare a leggere e scrivere fu tale da ricorrere a
una didattica del tutto particolare. L’iniziazione agli studi aveva un
"rito di passaggio" originale: all’età di cinque anni i bimbi e le
bimbe venivano invitati a ‘gustare’ i simboli dell’alfabeto scritti con il
miele nell’auspicio che analoga dolcezza fosse ritrovata nella lettura della Torah.
Nel medioevo germanico come in quello francese il maestro invitava prima a
recitare ad alta voce l’alfabeto e poi a leccare le tavolette o la pergamena
ove le lettere erano state cosparse di miele; in altri casi all’allievo si
offrivano da mangiare uova sode decorate con l’alfabeto o biscotti a forma di
lettere.
Il
tutto sta a testimoniare l’attenzione con cui gli ebrei seguivano la formazione
delle abilità nello scrivere e nel leggere dei loro figlioli, in secoli nei
quali la cultura e l’alfabeto erano per pochi, nei paesi occidentali e nelle
culture dominanti.
2.
L’odio razziale e la scuola italiana. E’ successo anche dai noi
Dobbiamo
avere più coraggio di ragionare sulla nostra storia nazionale nei confronti
dell’antisemitismo e della teoria della razza pura.
Oggi
non si può più giustificare una politica razzista con il fatto che l’Italia vi
sarebbe stata portata per colpa del progetto di un folle dittatore straniero;
purtroppo oggi occorre capire che la storia del fascismo si connotò per una
impronta razzista maturata ben prima di analoghi provvedimenti nazisti: sono le
fonti storiche che ce lo rivelano.
In
Italia Mussolini fece pubblicare il 14 luglio del 1938 il Manifesto degli
scienziati razzisti; il documento fu diffuso proprio nell’anniversario di
quella Rivoluzione Francese che aveva proclamato al Mondo l’idea dei Diritti
dell’Uomo.
La
storia ci dice che le Leggi razziali del 1938 furono la conclusione –non
l’inizio- di un lungo percorso, iniziato ben prima.
L’azione
intimidatoria contro insegnanti oppositori del regime apparve esplicita con
l’articolo 1 della legge n. 2300 del 24 dicembre 1925 che prevedeva il
licenziamento per coloro che si venissero a trovare "in condizioni di
incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo". In
realtà già nell’ottobre del 1925 i professori Gaetano Salvemini e Gino Luzzato
erano stati rimossi dalle cattedre universitarie di Firenze e Venezia perché
erano incompatibili con il regime.
Nel
quadro di un crescente integralismo, si inserire l’azione contro il cattolico
Ernesto Buonaiuti, che vide nel 1925 l’iscrizione delle sue opere all’Indice
dei libri proibiti.
Tutto
il mondo della scuola -tra il 1926 e il 1929- si trovò sottoposto a un diluvio
di circolari "riservatissime" che ingiungevano di controllare e
segnalare gli ‘apostati’, i non credenti. Il fascismo perseguì sin dagli esordi
una politica razzista enfatizzata dai discorsi di Mussolini già dal 1921, e
legittimata dai titoli X e XI del Codice Rocco del 1930 che punivano ‘i delitti
contro la integrità e la sanità della stirpe’.
Nel
frattempo, prima in Italia e poi in Germania, gli istituti scientifici erano
stati tutti indirizzati verso una politica apertamente razzista: l’Istituto
Italiano di Statistica varò sin dal 1926 un programma di ‘controllo della
razza’; del resto simili intenti erano stati annunciati nel 1925 con
l’istituzione dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia.
Nel
1931 si predispose una scheda antropometrica destinata a raccogliere dati
qualitatitivi relativi alle famiglie. La scheda ‘biotipologica’ era stata
teorizzata da Nicola Pende e da altri scienziati che sostennero la politica
antisemita.
Con
la pubblicazione delle numerose circolari che stabilivano la censura, ci
si rende conto come le leggi razziali del ‘38 furono preparate con una
pianificazione accurata: già dal 1934 le autorità di polizia provvedevano al
sequestro di libri che offendevano la "dignità della razza". E i
quotidiani commentarono con orgoglio che nel 1933 "non c’era bisogno dei
roghi con cui i libri venivano distrutti dai nazisti in quanto la
lungimiranza dell’Italia aveva provveduto a istituire una censura preventiva
così rigida che già nel 1927 tutto era sotto controllo". E l’accanimento
censorio fu tutto orientato verso chi era sospettato di inquinare la purezza
italiana. E in questo quadro rientrò la legge del 7 gennaio 1929, n. 5 che
istituiva il testo unico di Stato perché la scuola italiana potesse in tutti i
suoi gradi ispirarsi alle idealità del fascismo.
La
politica di controllo delle pubblicazioni per la ‘difesa della razza’ fu così
accanita che -nel 1934- si arrivò al sequestro di un romanzo d’avventure che
narrava l’amore di un intellettuale africano con una donna italiana.
E,
infine, nel 1938 con le Leggi razziali, tra le varie persecuzioni, anche
l’espulsione dei ragazzi ebrei dalle nostre scuole.
3.
Passione per la Scuola nonostante la persecuzione
Sempre
nel libro di Morpurgo, ho trovato pagine commoventi sulla passione dei
deportati ebrei verso la scuola e la scrittura. E’ anche questo un modo per non
dimenticare e non farsi dimenticare, una testimonianza per il presente.
Cito
qui alcune storie, particolarmente drammatiche e significative.
Dai
ghetti assediati -nel 1940- Mary Berg annotava nel suo diario "Ora ci sono
moltissime scuole illegali e si moltiplicano ogni giorno. La gente studia nelle
soffitte e nelle cantine e tutte le materie sono comprese nei programmi persino
latino e greco... Non vi sono studenti svogliati. La natura illegale di questo
insegnamento, il pericolo che ci minaccia ad ogni istante, colma ognuno di uno
strano zelo"… "i giovani ebrei studiano in segreto. In caso di
pericolo i ragazzi sanno nascondere i loro libri. I giovani ebrei sono scaltri
quando escono per recarsi all’insegnamento clandestino nascondono libri e
quaderni tra pantaloni e stomaco indi abbottonano giacche e cappotti".
La
passione per la scrittura appare anche dai diari di Ana Novac scritti ad
Auschwitz e in altri sette campi di concentramento su materiali di fortuna che
venivano nascosti negli zoccoli.
Era
la scuola l’occasione per il miglioramento della società civile e anche a
questa istituzione la stessa Anna Frank, dal suo nascondiglio di Amsterdam,
assegnava la possibilità dell’emancipazione femminile: "Più volte mi sono
posta una di quelle domande che non mi danno pace, e cioè perché un tempo, e
spesso anche adesso, la donna nei popoli occupa un posto molto meno importante
rispetto all’uomo ...
Per
fortuna la scuola, il lavoro, il progresso hanno un po’ aperto gli occhi alle
donne".
Hannah
Goslar incontrò Anna Frank nel campo di concentramento. Hannah racconta che
cominciarono a sperare che a primavera sarebbero tornate a scuola.
Si
trattava della stessa speranza di Lia Levi che all’indomani della Liberazione
sperava in una sessione speciale d’esami per i bimbi che avevano studiato
clandestinamente, provvedimento che l’Italia appena liberata non volle
accordare.
Proprio
sulla scuola aveva infierito il regime fascista, espellendo gli alunni ebrei,
tanto che Bruna Levi Schreiber scrive: "Passano i giorni, iniziano le
scuole e tu ragazza ebrea rimani a casa. Non puoi nemmeno ascoltare la radio: è
proibito agli ebrei... Sei disperata, umiliata, non parli con nessuno, giri a
vuoto per casa, senza far nulla, nulla di costruttivo per il tuo futuro. ...
Sei infelice perché scuola per te come per tutti, oggi come ieri come domani,
vuol dire anche centro di aggregazione, lavoro organizzato, risate, compagnia,
appuntamenti per il pomeriggio... vita!".
L’amore
per lo studio e per la scrittura erano garanzia di vita; questo un impegno lo
si ritrova nel padre di Jona Oberski che appena portato nel lager non smise di
insegnare le lettere dell’alfabeto ebraico al figliolo. La piccola Louise
Jacobson, imprigionata a Drancy prima di essere inviata a Auschwitz,
ringraziava nelle sue lettere per i libri che arrivavano nei pacchi o
protestava perché non aveva da leggere.
Tra
il 1945 e il 1980 nel terreno attorno ai resti dei crematori dei campi di
sterminio di Auschwitz-Birkenau furono trovati ben nascosti una serie di
manoscritti.
Salmen
Gradowski aveva chiuso le sue carte in una borraccia di metallo ed aveva
annotato in quattro lingue -polacco, russo, francese e tedesco- un’avvertenza:
"Interessatevi a questo documento poiché contiene un materiale molto
importante per la storia.... Desidero lasciare questo scritto come pure
numerose altre annotazioni a memoria del futuro mondo pacificato affinché si
sappia cos’è accaduto. L’ho sepolto sotto le ceneri, ritenendo che si trattasse
del luogo più sicuro, dove certamente un giorno si sarebbe scavato per trovare
le tracce di milioni di uomini uccisi. ...Vi è sepolta anche una grande
quantità di denti. Noi, i lavoratori del Kommando, li abbiamo sparsi apposta
nel terreno, perché il mondo potesse trovare le tracce concrete di milioni di
uomini ammazzati... Esprima il futuro il suo giudizio su di noi in base alle
mie annotazioni e che possa il mondo dare uno sguardo almeno su una goccia, su
un frammento del mondo tragico in cui abbiamo vissuto. 6 settembre 1944".
Conclusioni
Ho
riportato brevi annotazioni del rapporto tra scuola e Shoah per riportarci al
nostro presente. Mi sono sforzata di portare un pezzetto di memoria fondata su
documenti, su storie, perché la pietra anonima di Auschwitz-Birkenau abbia da
noi risposte.
Questa
storia ci dà, se sappiamo leggerla, una grande lezione per il presente.
A
me è chiaro come al centro di ogni progetto di totalitarismo vi sia
l’intenzione di distruggere la libertà della scuola; oggi come ieri.
Ricordo
i 20 insegnanti di una scuola elementare del Kosovo trucidati dinanzi ai
piccoli allievi dalle forze del nazionalismo serbo.
Forse
non è un caso che i movimenti per l’emancipazione dei diritti civili degli
ebrei sono sempre coincisi con la richiesta di diritti sociali per l’insieme di
tutti i cittadini.
Dall’
Antichità, al Medioevo, al ‘900 la scolarizzazione è stata sempre guardata con
diffidenza giacché la scuola –ricordava Don Lorenzo Milani- può essere un
‘male’ perché lo studio permette di comprendere e difendere i propri diritti.
Vorrei
concludere ricordandovi la scena di un film che tutti voi conoscete.
Il
Giorno della Memoria mi riporta al pianto collettivo che tutti abbiamo fatto
quando il figlio di Roberto Benigni nella "Vita è bella", il piccolo
Giosuè, vince alla fine di una storia dolcissima e sconvolgente, il suo
carrarmato-premio, con il quale il padre aveva lenito la violenza del lager e,
in fondo, salvato suo figlio.
La
Vita è bella, nonostante tutto, e va vissuta pensando all’amore per i bambini,
per tutti i bambini, al fatto che l’amore è meno banale del male, forse meno
frequente, meno facile da conservare. Ma solo questo, quando la tolleranza e il
rispetto saranno pane quotidiano del nostro pianeta, solo questo dobbiamo insegnare
ai nostri bambini. Questo dovremmo fare noi, soprattutto, a qualsiasi età della
vita.
Anche
per questo è importante ricordare l’ammonimento di Primo Levi: "Meditate
che questo è stato".
Meditiamo,
perché questo non succeda mai più.