Cosa ci insegna il caso di Costa Volpino
25/09/2013
Il caso dell'istituto dove alcuni bambini
italiani sono stati stornati in altre scuole per evitare la presenza di
alunni stranieri non deve evocare i fantasmi del razzismo. Ecco perchè
Il caso della scuola bergamasca di Costa Volpino – i 7
bambini italiani stornati in altre scuole perché in prima elementare
sarebbero stati in compagnia di 14 coetanei stranieri – ha evocato
ancora una volta i fantasmi del razzismo. Salvo solide prove
contrarie, sono fantasmi che non scomoderei: almeno per quanto riguarda i
genitori (ben diverso,ovviamente, per chi soffia sul fuoco). I quali
genitori, del resto, dichiarano piuttosto il timore che, dovendo
occuparsi dei “problemi” di tanti bambini stranieri, la scuola avrebbe
inevitabilmente trascurato la “minoranza “ italiana. Le inquietudini
suscitate nelle famiglie da classi o scuole con quote consistenti dei
figli dell’immigrazione sono assai più diffuse di quanto non appaia sui
media. Che, fra l’altro, spesso enfatizzano i singoli episodi più del
dovuto. E però queste inquietudini bisognerebbe non demonizzarle e
neppure snobbarle. Piuttosto prenderle per mano e farle diventare il
filo conduttore di una seria discussione pubblica – e della scuola
pubblica. Se evocare fantasmi, infatti, è per lo più controproducente,
non serve granché neanche rispondere con formule ermetiche o supponenti
che sanno lontano un miglio di retorica politica, e che non entrano nel
merito.
Non è di grande utilità, per esempio, l’affermazione secondo cui la presenza nella scuola italiana di più di 800.000 studenti di origine straniera ( il 10% circa della scolarità, una buona metà nati in Italia, sempre di più anche nella scuola superiore) costituisce senza dubbio una “risorsa”. E chi non lo capisce, o è fuori o è contro. In questi giorni la formula è stata ripetuta da molti, ministra Carrozza compresa (che però ha richiamato le indagini che dimostrano che tutti apprendono meglio in classi e contesti socialmente e culturalmente non omogenei). Intendiamoci, l’intenzione è buona, ma non basta. Anche sorvolando sul fatto che il termine “risorsa”, di origine economico-aziendale, può essere fuorviante quando si parli di educazione, sono troppe le cose che restano implicite. Risorsa di che tipo, in che senso, per chi? E, soprattutto, a quali condizioni? Dopo vent’anni e più di esperienza, la nostra scuola migliore, se venisse ascoltata, potrebbe offrire approcci più densi e argomenti più concreti. A partire dalla riformulazione della domanda. Che vantaggi possono esserci dall’avere come compagni di scuola – di giochi, di sport, di musiche e cori, di avventure e progetti – bambini e ragazzi con provenienze, lingue, culture, religioni, esperienze e stili di vita diversi da ciò che, in verità con non poca approssimazione, si definisce tipicamente italiano? E come si fa ad impedire che i vantaggi, se davvero ci sono (e per tutti gli studenti), vengano rovesciati in svantaggi da condizioni avverse? Cosa si deve fare, insomma, non solo per evitare difficoltà agli studenti italiani ma per assicurare un’esperienza scolastica positiva per tutti ?
Gli argomenti cui si ricorre più di frequente sono tanti – dalla fisionomia ormai “strutturale “ dell’immigrazione nelle società europee alla necessità di lungimiranti politiche di integrazione; dall’andamento crescente dei nati in Italia, quindi italofoni fin dal nido e dalla materna, ai promettenti risultati scolastici, per esempio in matematica, di cui si comincia ad avere riscontro. Ma nelle discussioni dentro e fuori l’ambito scolastico troppo spesso mancano, chissà perché, gli argomenti che potrebbero aiutare di più i genitori italiani, e con loro chissà quanti altri, a vedere le cose anche da altri punti di vista.
Ne va richiamato almeno uno, che si discosta dai più consueti. Le mamme e i papà che oggi hanno paura dei “troppi” alunni di provenienza straniera sono, con tutta probabilità, gli stessi che di qui a poco si faranno in quattro perché i loro figli ricevano, attraverso le lingue straniere, i viaggi di studio e le vacanze all’estero, gli scambi tra scuole di diversi paesi , un’educazione il più possibile aperta al mondo. Erasmus, gli stages e il servizio civile in altre parti di Europa, gli studi in università non italiane, una maggiore presenza nelle nostre università di docenti, ricercatori, studenti di altri paesi, fanno parte delle aspettative di tantissime famiglie che alla scuola ci tengono. E che si rendono conto che per vivere nel mondo di oggi è sempre più importante saper guardare oltre il già noto, misurarsi con altre realtà, imparare più lingue, avere la disinvoltura e gli strumenti culturali che permettono di cogliere le opportunità anche professionali di un mondo sempre più grande e interconnesso. Già oggi, perfino per lavori che non richiedono altissimi livelli di qualificazione – nel turismo, nel commercio, nel marketing, in tanti comparti della produzione e dei servizi - la conoscenza di più lingue e una formazione “internazionale” sono ormai un must. Il fatto che nelle nostre scuole ci siano tanti studenti che vengono da altre parti del mondo può aiutare? Certo che sì. È un vantaggio, sui banchi di scuola, mischiare italiano e inglese con i compagni filippini e italiano e spagnolo con quelli sudamericani, e magari frequentare corsi comuni di cinese e di arabo. È un vantaggio imparare a conoscere, attraverso frequentazioni ed amicizie, quella Cina così lontana e inquietante. Si può diventare più curiosi e consapevoli imparando dalle facce e dai racconti perché ogni anno milioni di persone nel mondo vanno a vivere altrove; i problemi, le vicende, le caratteristiche di altri paesi; le difficoltà, le scommesse, i successi di chi arriva da lontano. L’allargarsi delle comunità, la capacità di includere e di farsi includere, gli incontri in cui interagiscono le analogie e le differenze - ma a sei anni a contare sono più le prime che le seconde - non corrodono le identità originarie, ma solo gli handicap del provincialismo. Se è così, se può essere così, le ragioni per guardare senza timori e perfino con favore a una convivenza plurale nelle scuole non risiedono tanto in principi che non tutti vivono come un proprio valore etico o politico; e non devono neppure essere figlie della rassegnazione a una situazione non modificabile. In ballo c’è piuttosto lo sviluppo di atteggiamenti, interessi e competenze essenziali per una migliore capacità di essere cittadini del mondo, e un domani per entrare nel lavoro con qualche marcia in più. Modernità, dunque, prima ancora che solidarietà. Vantaggi per tutti, prima ancora che l’universalismo astratto del diritto allo studio. Attraverso un obiettivo – quello dell’”intercultura” - che dovrebbe essere perseguito sempre di più, anche nelle scuole dove non ci sono alunni stranieri ( ma che è indubbiamente più facile costruire dove ci sono).
È però preoccupante che vent’anni di ricerca educativa e di esperienze di successo in tante nostre scuole non siano ancora in grado di rassicurare pienamente i genitori italiani (inquieti e critici su più aspetti della scuola italiana sono poi anche molti genitori stranieri, sebbene nessun organo di informazione se ne occupi). E neppure di garantire che ogni istituto scolastico sappia come evitare, oltre agli addensamenti anomali e potenzialmente ghettizzanti, che le difficoltà linguistiche o lo spaesamento dei ragazzi nati e parzialmente scolarizzati altrove - un fenomeno peraltro sempre più contenuto - producano difficoltà per tutti. Prima di tutto per gli stranieri stessi, oggi studenti, domani lavoratori e cittadini del nostro paese, che infatti continuano ad essere bocciati e ad abbandonare precocemente la scuola con percentuali anomale rispetto a quelle di altri paesi coinvolti come e più del nostro dal fenomeno migratorio.
Eppure a Milano, Prato, Reggio Emilia, Piacenza, Torino, Genova, Roma – soprattutto dove i nuovi studenti sono presenti in maniera massiccia - ci sono da tempo pratiche esperte e vincenti. Come può succedere che si riproducano casi in cui sembra di dover ripartire da zero ? In cui la scuola sembra incapace di mostrare alle famiglie e all’opinione pubblica la padronanza e i buoni risultati delle azioni e degli strumenti che servono? In questi giorni una mamma si è lamentata su un quotidiano perché la maestra le avrebbe detto che, a causa dei deficit linguistici dei compagni di classe di suo figlio, ha dovuto trascurare per mesi la matematica. Se la storia è vera, c’é da trasecolare. Fa parte infatti dell’abc dell’accoglienza e dell’alfabetizzazione linguistica dei non italofoni, la forte valorizzazione iniziale dei linguaggi “universali” – il disegno, l’informatica, le tecnologie, la musica e, appunto, la matematica – insieme ad appositi percorsi di formazione linguistica scolastici ed extrascolastici, proprio per sviluppare in fretta l’italiano che serve. Possibile che ci siano ancora situazioni in cui manca del tutto una cultura professionale e una capacità di innovazione organizzativa e didattica adeguata?
Sono forse casi estremi ma la realtà dell’integrazione scolastica italiana è indubbiamente ancora piena di buchi (come del resto quella dell’intervento per i disabili, delle nuove tecnologie, della formazione per il lavoro, e quant’altro). E di vistose differenze qualitative tra territori, comparti scolastici, istituti, sezioni e classi anche dentro lo stesso istituto. Una frammentazione insostenibile, che produce diffidenze e paure in famiglie sempre più ansiose rispetto ai risultati scolastici dei propri figli. Che si tratti di classi con tanti stranieri o con alunni con gravi disabilità, come nel caso recentissimo della fuga di genitori italiani da una classe in cui c’è un bambino autistico. Non si riesce a far capire che misurarsi con le altrui diversità – e fragilità – rende più intelligenti e più forti, e questo è forse un portato delle culture sociali prevalenti. Ma non si riesce neppure a “fare sistema” utilizzando le esperienze di eccellenza come bussola di un miglioramento complessivo, e neppure a intervenire con decisione quando le cose non vanno. È un problema di politiche scolastiche sbadate ed inefficaci, certamente, ma c’è dell’altro se tra le contrarietà al recente decreto sulla scuola, ce ne sono anche al punto in cui si prevedono interventi obbligatori di formazione degli insegnanti quando i risultati scolastici siano particolarmente problematici. Come se la formazione del personale fosse una sanzione...
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Non è di grande utilità, per esempio, l’affermazione secondo cui la presenza nella scuola italiana di più di 800.000 studenti di origine straniera ( il 10% circa della scolarità, una buona metà nati in Italia, sempre di più anche nella scuola superiore) costituisce senza dubbio una “risorsa”. E chi non lo capisce, o è fuori o è contro. In questi giorni la formula è stata ripetuta da molti, ministra Carrozza compresa (che però ha richiamato le indagini che dimostrano che tutti apprendono meglio in classi e contesti socialmente e culturalmente non omogenei). Intendiamoci, l’intenzione è buona, ma non basta. Anche sorvolando sul fatto che il termine “risorsa”, di origine economico-aziendale, può essere fuorviante quando si parli di educazione, sono troppe le cose che restano implicite. Risorsa di che tipo, in che senso, per chi? E, soprattutto, a quali condizioni? Dopo vent’anni e più di esperienza, la nostra scuola migliore, se venisse ascoltata, potrebbe offrire approcci più densi e argomenti più concreti. A partire dalla riformulazione della domanda. Che vantaggi possono esserci dall’avere come compagni di scuola – di giochi, di sport, di musiche e cori, di avventure e progetti – bambini e ragazzi con provenienze, lingue, culture, religioni, esperienze e stili di vita diversi da ciò che, in verità con non poca approssimazione, si definisce tipicamente italiano? E come si fa ad impedire che i vantaggi, se davvero ci sono (e per tutti gli studenti), vengano rovesciati in svantaggi da condizioni avverse? Cosa si deve fare, insomma, non solo per evitare difficoltà agli studenti italiani ma per assicurare un’esperienza scolastica positiva per tutti ?
Gli argomenti cui si ricorre più di frequente sono tanti – dalla fisionomia ormai “strutturale “ dell’immigrazione nelle società europee alla necessità di lungimiranti politiche di integrazione; dall’andamento crescente dei nati in Italia, quindi italofoni fin dal nido e dalla materna, ai promettenti risultati scolastici, per esempio in matematica, di cui si comincia ad avere riscontro. Ma nelle discussioni dentro e fuori l’ambito scolastico troppo spesso mancano, chissà perché, gli argomenti che potrebbero aiutare di più i genitori italiani, e con loro chissà quanti altri, a vedere le cose anche da altri punti di vista.
Ne va richiamato almeno uno, che si discosta dai più consueti. Le mamme e i papà che oggi hanno paura dei “troppi” alunni di provenienza straniera sono, con tutta probabilità, gli stessi che di qui a poco si faranno in quattro perché i loro figli ricevano, attraverso le lingue straniere, i viaggi di studio e le vacanze all’estero, gli scambi tra scuole di diversi paesi , un’educazione il più possibile aperta al mondo. Erasmus, gli stages e il servizio civile in altre parti di Europa, gli studi in università non italiane, una maggiore presenza nelle nostre università di docenti, ricercatori, studenti di altri paesi, fanno parte delle aspettative di tantissime famiglie che alla scuola ci tengono. E che si rendono conto che per vivere nel mondo di oggi è sempre più importante saper guardare oltre il già noto, misurarsi con altre realtà, imparare più lingue, avere la disinvoltura e gli strumenti culturali che permettono di cogliere le opportunità anche professionali di un mondo sempre più grande e interconnesso. Già oggi, perfino per lavori che non richiedono altissimi livelli di qualificazione – nel turismo, nel commercio, nel marketing, in tanti comparti della produzione e dei servizi - la conoscenza di più lingue e una formazione “internazionale” sono ormai un must. Il fatto che nelle nostre scuole ci siano tanti studenti che vengono da altre parti del mondo può aiutare? Certo che sì. È un vantaggio, sui banchi di scuola, mischiare italiano e inglese con i compagni filippini e italiano e spagnolo con quelli sudamericani, e magari frequentare corsi comuni di cinese e di arabo. È un vantaggio imparare a conoscere, attraverso frequentazioni ed amicizie, quella Cina così lontana e inquietante. Si può diventare più curiosi e consapevoli imparando dalle facce e dai racconti perché ogni anno milioni di persone nel mondo vanno a vivere altrove; i problemi, le vicende, le caratteristiche di altri paesi; le difficoltà, le scommesse, i successi di chi arriva da lontano. L’allargarsi delle comunità, la capacità di includere e di farsi includere, gli incontri in cui interagiscono le analogie e le differenze - ma a sei anni a contare sono più le prime che le seconde - non corrodono le identità originarie, ma solo gli handicap del provincialismo. Se è così, se può essere così, le ragioni per guardare senza timori e perfino con favore a una convivenza plurale nelle scuole non risiedono tanto in principi che non tutti vivono come un proprio valore etico o politico; e non devono neppure essere figlie della rassegnazione a una situazione non modificabile. In ballo c’è piuttosto lo sviluppo di atteggiamenti, interessi e competenze essenziali per una migliore capacità di essere cittadini del mondo, e un domani per entrare nel lavoro con qualche marcia in più. Modernità, dunque, prima ancora che solidarietà. Vantaggi per tutti, prima ancora che l’universalismo astratto del diritto allo studio. Attraverso un obiettivo – quello dell’”intercultura” - che dovrebbe essere perseguito sempre di più, anche nelle scuole dove non ci sono alunni stranieri ( ma che è indubbiamente più facile costruire dove ci sono).
È però preoccupante che vent’anni di ricerca educativa e di esperienze di successo in tante nostre scuole non siano ancora in grado di rassicurare pienamente i genitori italiani (inquieti e critici su più aspetti della scuola italiana sono poi anche molti genitori stranieri, sebbene nessun organo di informazione se ne occupi). E neppure di garantire che ogni istituto scolastico sappia come evitare, oltre agli addensamenti anomali e potenzialmente ghettizzanti, che le difficoltà linguistiche o lo spaesamento dei ragazzi nati e parzialmente scolarizzati altrove - un fenomeno peraltro sempre più contenuto - producano difficoltà per tutti. Prima di tutto per gli stranieri stessi, oggi studenti, domani lavoratori e cittadini del nostro paese, che infatti continuano ad essere bocciati e ad abbandonare precocemente la scuola con percentuali anomale rispetto a quelle di altri paesi coinvolti come e più del nostro dal fenomeno migratorio.
Eppure a Milano, Prato, Reggio Emilia, Piacenza, Torino, Genova, Roma – soprattutto dove i nuovi studenti sono presenti in maniera massiccia - ci sono da tempo pratiche esperte e vincenti. Come può succedere che si riproducano casi in cui sembra di dover ripartire da zero ? In cui la scuola sembra incapace di mostrare alle famiglie e all’opinione pubblica la padronanza e i buoni risultati delle azioni e degli strumenti che servono? In questi giorni una mamma si è lamentata su un quotidiano perché la maestra le avrebbe detto che, a causa dei deficit linguistici dei compagni di classe di suo figlio, ha dovuto trascurare per mesi la matematica. Se la storia è vera, c’é da trasecolare. Fa parte infatti dell’abc dell’accoglienza e dell’alfabetizzazione linguistica dei non italofoni, la forte valorizzazione iniziale dei linguaggi “universali” – il disegno, l’informatica, le tecnologie, la musica e, appunto, la matematica – insieme ad appositi percorsi di formazione linguistica scolastici ed extrascolastici, proprio per sviluppare in fretta l’italiano che serve. Possibile che ci siano ancora situazioni in cui manca del tutto una cultura professionale e una capacità di innovazione organizzativa e didattica adeguata?
Sono forse casi estremi ma la realtà dell’integrazione scolastica italiana è indubbiamente ancora piena di buchi (come del resto quella dell’intervento per i disabili, delle nuove tecnologie, della formazione per il lavoro, e quant’altro). E di vistose differenze qualitative tra territori, comparti scolastici, istituti, sezioni e classi anche dentro lo stesso istituto. Una frammentazione insostenibile, che produce diffidenze e paure in famiglie sempre più ansiose rispetto ai risultati scolastici dei propri figli. Che si tratti di classi con tanti stranieri o con alunni con gravi disabilità, come nel caso recentissimo della fuga di genitori italiani da una classe in cui c’è un bambino autistico. Non si riesce a far capire che misurarsi con le altrui diversità – e fragilità – rende più intelligenti e più forti, e questo è forse un portato delle culture sociali prevalenti. Ma non si riesce neppure a “fare sistema” utilizzando le esperienze di eccellenza come bussola di un miglioramento complessivo, e neppure a intervenire con decisione quando le cose non vanno. È un problema di politiche scolastiche sbadate ed inefficaci, certamente, ma c’è dell’altro se tra le contrarietà al recente decreto sulla scuola, ce ne sono anche al punto in cui si prevedono interventi obbligatori di formazione degli insegnanti quando i risultati scolastici siano particolarmente problematici. Come se la formazione del personale fosse una sanzione...
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