giovedì 20 maggio 2010



Vivalascuola. Cittadini a scuola e stranieri in città
Posted by giorgiomorale on May 17, 2010


Reso noto l’organico dei docenti 2010-2011, scoppia l’emergenza tempo pieno. Con la seconda tranche dei tagli, gli aggiustamenti operati quest’anno dalle singole scuole per garantire il tempo pieno non saranno possibili. A Roma occupata la scuola Iqbal Masih. Sono cifre enormi. A Milano sono 150 le classi trasformate d’ufficio a tempo normale e circa 3.000 i bambini che dovranno essere esclusi. A Roma ci saranno 97 prime a tempo pieno in meno. A Padova 195 classi in meno di quelle richieste. A Firenze resteranno fuori 600 bambini… E alle superiori cominceranno i tagli della “riforma” Gelmini… Si aggiunga che: lo Stato non dà il miliardo che deve alle scuole pubbliche, riduce il sostegno, non finanzia le attività didattiche…



Integrazione a scuola: l’orizzonte fai-da-te di Francesco Accattoli


La presenza degli alunni stranieri nella scuola secondaria superiore, oggi oramai consolidata, è una realtà che non può prescindere da una analisi attenta circa le strategie didattiche più serie da offrire, coerentemente per altro con quanto sottolineato dal Ministero stesso.
Si legge nelle “Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri” del C. M. n°24 del 1 marzo del 2006:
“L’apprendimento e lo sviluppo della lingua italiana come seconda lingua deve essere al centro dell’azione didattica. Occorre, quindi, che tutti gli insegnanti della classe, di qualsivoglia disciplina, siano coinvolti (vedi Progetto pilota del MIUR, Direzione generale del personale della scuola, in collaborazione con 21 Università: “Azione italiano L2: Lingua di contatto, lingua di culture”).
E’ necessaria, pertanto, una programmazione mirata sui bisogni reali e sul monitoraggio dei progressi di apprendimento nella lingua italiana, acquisita via via dall’alunno straniero.
[…] L’educazione interculturale non è una disciplina aggiuntiva, ma una dimensione trasversale, uno sfondo che accomuna tutti gli insegnanti e gli operatori scolastici. Il pluralismo culturale e la complessità del nostro tempo richiedono necessariamente una continua crescita professionale di tutto il personale della scuola. Diventa, quindi, prioritario il tema della formazione, iniziale e in servizio, e della formazione universitaria dei docenti. La Direttiva ministeriale n. 45 del 4 aprile 2005, concernente l’individuazione degli obiettivi formativi prioritari per l’anno scolastico 2005/2006, all’art. 3 prevede interventi formativi per l’integrazione degli alunni stranieri. Un ambito di particolare rilevanza per lo sviluppo professionale dei docenti è relativo alla didattica dell’italiano lingua seconda. Come accennato nel paragrafo 4, il MIUR sta sviluppando un progetto nazionale di formazione di docenti esperti mediante il sistema dell’e-learning integrato. I percorsi, i materiali e le competenze così formati potranno presto costituire supporto a future iniziative di diffusione della formazione. Modelli e metodi per la qualificazione dei docenti nell’insegnamento dell’Italiano L2 sono stati esperiti nel corso degli anni in diverse realtà e potranno costituire un’utile risorsa per scambi didattici e laboratori di ricerca-azione da realizzare preferibilmente in reti di scuole. Per quanto attiene la formazione in servizio del personale della scuola, anche del personale amministrativo che per primo entra in contatto con le famiglie, saranno indispensabili collegamenti con il territorio e con le opportunità offerte anche dalle Università.”
Ed ancora, nella premessa al “Documento generale di indirizzo per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale” del dicembre 2006 si specifica che:
“La complessità del nostro tempo, il pluralismo culturale e le trasformazioni della scuola nella dimensione multiculturale richiedono una continua crescita professionale di tutto il personale della scuola: dirigenti scolastici, insegnanti e anche il personale amministrativo che per primo, spesso, entra in contatto con le famiglie. C’è bisogno di una formazione mirata e specifica per i dirigenti delle scuole ad alta presenza di alunni stranieri e moduli di formazione diffusa, per tutto il personale scolastico, da definire d’intesa con gli Uffici scolastici regionali, gli Enti locali e le Università, ed in collaborazione con centri interculturali e associazioni. È necessario che la formazione iniziale degli insegnanti comprenda nuovi approcci e contenuti nei Piani di studio previsti nei corsi di laurea per accedere alla professione insegnante. Prepararsi all’insegnamento nella prospettiva interculturale, più in generale in rapporto alle diversità, deve rientrare nell’obiettivo di una professionalità docente compiuta.
È da potenziare, inoltre, la formazione in servizio nella prospettiva interculturale e non vi è dubbio che quella centrata sulla singola scuola o su reti di scuole riveste una particolare importanza per la soluzione di aspetti concreti e non può che essere demandata alla capacità di ricerca che la comunità scolastica intende percorrere.”
Gli istituti professionalizzanti sono ovviamente i più interessati dal fenomeno, l’istruzione liceale al contrario si mantiene su percentuali di utenza straniera piuttosto basse. Occorre però definire con chiarezza che cosa s’intende per utenza straniera, così da non scadere nel ridicolo, come in occasione del famoso tetto del 30% proposto dalla Gelmini: per utenza straniera intenderò quegli alunni che hanno bisogno innanzitutto di un sostegno linguistico volto a iniziare un processo di alfabetizzazione nella nostra lingua. Insegnamento dell’italiano L2 puro e semplice. Sono quegli alunni che non possono seguire il medesimo curricolo dei loro compagni di classe, per lo meno non in tutte le discipline.
Il Ministero parla chiaro, non si può eludere una preparazione specifica in materia di mediazione linguistica e culturale, il che significa che sia i dirigenti che i docenti devono saper fronteggiare la oramai famosissima “complessità del presente” con mezzi accademicamente seri e professionali.
IL 23 ottobre 2009 scadeva il bando per un master organizzato dall’Università di Macerata dal titolo “Didattica dell’italiano L2/LS in prospettiva interculturale”: un master non di quelli on line da “tre punti”, per intenderci, ma un’occasione utile per approfondire il tema e la pratica della didattica dell’italiano L2. Durata del master 1500 ore con obbligo di frequenza, al costo di 1500 euro.
Un po’ caro – diciamolo – per le tasche di un singolo docente o, peggio ancora, di un singolo precario, ma l’idea di poter frequentare un master così approfondito mi ha spinto ad investigare sulla situazione dell’insegnamento dell’italiano L2 nelle scuole superiori della mia provincia, Ancona. Nel frattempo io stesso stavo studiando per l’esame DITALS di I livello, una certificazione assai seria – lungi da me farmi pubblicitario dell’Università per gli Stranieri di Siena – con un costo abbordabile: 150 euro.
Ho pensato allora di domandare ai dirigenti scolastici se sarebbero stati d’accordo ad individuare uno o più docenti a cui pagare una formazione (master o semplice esame DITALS o ITALS di I Livello) per entrare in possesso di quelle competenze necessarie per insegnare l’italiano come lingua seconda, per muoversi verso la creazione di un gruppo autonomo e specializzato di docenti interni alla scuola, nell’ottica di una progressiva emancipazione dai CTP o dagli Uffici Scolastici Regionali.
Per essere ancora più preciso nella mia indagine ho atteso sino allo scorso mese di febbraio quando al II Congresso Regionale della FLC-CGIL Marche sono stati presentati i dati circa l’utenza straniera nelle scuole marchigiane: nell’a. s. 2009/2010 gli alunni stranieri nella scuola secondaria di secondo grado costituiscono l’8,8% del totale degli iscritti, mentre se andiamo a ragionare provincia per provincia, in quella di Ancona gli stranieri rappresentano il 9,7%.
Vi poi sono istituti professionali che raggiungono quote oltre il 20%, una cifra considerevole, tenendo presente la natura e la portata dell’immigrazione nella Regione Marche. Eppure di classi con oltre il 30% di alunni stranieri alle superiori non ce ne sono, negli istituti comprensivi sono appena 3: tanto per sottolineare ancora una volta l’inadeguatezza della teoria ministeriale del famoso tetto di presenza straniera in classe.
Dinanzi ad un quadro come quello emerso dalla ricerca della FLC-CGIL la necessità di una strategia seria e programmata di mediazione linguistica doveva sicuramente rappresentare una priorità ineludibile per i dirigenti scolastici.
Dopo aver contattato dieci istituti d’istruzione secondaria di secondo grado, dai professionali fino ai licei, dove per altro mi trovo ad insegnare, il quadro finale ha dato una risposta assai chiara: nel sistema scolastico superiore permane un sistema di gestione della problematica legata ancora a comportamenti virtuosi dei singoli docenti – spesso sono usciti fuori riferimenti a buona volontà, spirito di servizio, etica professionale – o all’adesione a progetti esterni all’istituto – molto gettonato quello organizzato dalla Comunità Europea e finanziato dal Fondo Sociale Europeo.
Negli istituti professionali e tecnici, la pratica della didattica dell’italiano L2 è per necessità presente oramai da anni, istituzionalizzata per così dire, utilizzando docenti di lettere interni con anni di esperienza, ma senza una certificazione specifica. I licei invece sono quelli che più si arrangiano: interventi ad hoc per i pochissimi studenti stranieri, votati in sede di consiglio di classe, in ogni caso legati al buon cuore dei colleghi di lettere che spesso, tra vecchie antologie delle scuole elementari e medie e approcci comportamentisti, si dedicano alla crescita linguistica dell’alunno. In orario curricolare, per altro, mentre le scuole più organizzate offrono anche corsi pomeridiani.
Ma di certificazioni accademiche o specialistiche nemmeno l’ombra. Da quest’anno un’alternativa, specie nell’istruzione liceale, è stata fornita dai docenti inseriti nei progetti regionali facenti riferimento al cosiddetto decreto salvaprecari: nuova linfa per quelle realtà che non vengono nemmeno prese in considerazione per l’assegnazione di un mediatore linguistico, ma in ogni caso si tratta sempre e comunque di soluzioni rabberciate all’ultimo momento.
Quando poi l’indagine si è spostata sull’ipotesi di offrire ad almeno un docente di ruolo il supporto economico per sostenere un esame di I livello in didattica dell’italiano L2, il quadro s’è fatto ancora più avvilente: il “vorrei ma non posso” è stato il mantra maggiormente recitato dai dirigenti scolastici interpellati. E come non capirli: di soldi ne vedono pochi, dall’alto tante aspettative e pochi mezzi, i dirigenti scolastici ogni giorno devono sfoderare sapienti doti di amministratori, quasi di padri di famiglia che non devono far mancare nulla ai loro cari.
Eppure, mi sia consentito, un percorso formativo che s’aggira sui 150-200 euro non dovrebbe affatto spaventare, né creare problemi di bilancio: anzi, darebbe un senso alla missione formativa dell’istituto e sarebbe in linea con quanto – molto retoricamente- è stato suggerito dal Ministero nel C.M. n°24 del 2006. Quanti di noi docenti hanno visto la puntata della trasmissione di Rai3 Presa diretta dedicata alla scuola, si ricorderanno dell’istituto svedese di periferia che offriva corsi all’avanguardia, inserimenti linguistici e culturali sistematici come unico strumento possibile per il successo nel percorso scolastico e nella vita.
Detta così, sembra una frase uscita da uno di quei squallidi libri di didattica, eppure non c’è realizzazione di sé senza integrazione, e prima di tutto linguistica.
E’ forse meglio finanziare un bel corso d’aggiornamento su un autore mediocre di un’epoca altrettanto mediocre? Quante sono le spese degli istituti per progettini – diciamocelo – davvero improponibili? Quante giornate degli scacchi, quante proiezioni di film visionabili comodamente da casa, quanti fuochi d’artificio per risultare visibili dall’esterno, agli occhi della comunità?
Insegnare l’italiano L2 ad una persona che viene da fuori è quanto di più difficile e delicato possa esserci, più della poesia, degli integrali e della filosofia kantiana: si tratta di mettere un individuo nelle condizioni di poter realizzare se stesso ed il suo progetto di vita lontano da casa.
L’idea che mi sono fatto, pur nel grandissimo rispetto nei confronti del lavoro strenuo dei colleghi di lettere, è che in fondo prevalga sempre l’italico fai-da-te, la sublime arte dell’arrangiarsi. Eppure gli strumenti ci sarebbero per fare un bel lavoro e dare inizio ad una svolta formativa: autonomia significa anche non dover sempre lagnarsi perché manca qualcosa. Un qualcosa che è lì, alla portata di tutti.
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La fase silente
intervista a Florenza Tedeschi
Tu lavori come facilitatore culturale. Puoi spiegare?… La situazione è particolarmente problematica per i ragazzi cinesi o arabofoni, perché all’ingresso nella scuola non esiste per loro alcuna possibilità di comunicare; non esiste neanche una lingua veicolare, perché i ragazzi cinesi non sono ancora in grado di comunicare in inglese e i ragazzi arabi, a seconda delle regioni di provenienza, non parlano assolutamente né francese né inglese…
… formiamo dei gruppi di livelli diversi, facendoli uscire dalle classi negli orari in cui hanno materie che richiedono maggiori capacità astrattive della lingua, come Italiano, Storia, Scienze, mentre seguono più o meno regolarmente materie come Educazione Artistica, Educazione Fisica o Musicale durante le quali possono comunicare anche attraverso linguaggi non verbali.
Al primo livello ci sono ragazzi che non parlano assolutamente la lingua italiana, poi abbiamo un secondo e un terzo livello. Alla fine di un corso di tre anni questi ragazzi parlano un italiano più o meno corretto anche se poi occorrerebbero loro altri due anni per perfezionare la conoscenza della lingua. Alle medie, infatti si pretende che i termini siano già acquisiti, che si possieda un lessico specifico per la storia, la geografia, le scienze…
Come avviene l’insegnamento della lingua italiana?Nelle scuole in cui sono stata vengono messi insieme ragazzi che provengono da paesi diversi: turchi, arabi e cinesi, a seconda della loro conoscenza dell’italiano. Insegniamo loro a comunicare; si inizia dalle prime cose, saluti, convenevoli, si insegna loro l’alfabeto, perché per esempio non tutti i cinesi hanno imparato la traslitterazione dei suoni, cioè il passaggio dalla fonetica degli ideogrammi alla nostra.
Si punta innanzitutto sulla acquisizione orale di alcune abilità. Dopo si passa alla formulazione scritta, altrimenti la cattiva acquisizione del suono porta anche a sbagli nella scrittura. I cinesi hanno il problema della “erre”, che è sempre “elle”, gli ispanofoni hanno la “bi” invece della “vi”, gli arabi hanno la “bi” al posto della “pi”, i suoni non sono quelli del nostro alfabeto. Certo non puoi pensare di insegnar loro in un giorno, in una lezione: “io mi chiamo, tu ti chiami” e poi ti fermi al “lui si chiama”.
Devi inserire il genere femminile e non è facile, sono concetti complessi, non tutte le lingue hanno queste distinzioni: singolare, plurale, maschile, femminile; a volte anche i gesti sono diversi; i ragazzi devono acquisire una gestualità che non è la loro, decodificarla. Si fanno giochi di ruolo, si simulano situazioni linguistiche, perché l’acquisizione di alcune funzioni della lingua avviene solo attraverso lo scambio e il dialogo…
Dunque, lentezza, calma, soprattutto per rispettare la fase silente, che è fondamentale. La fase silente è il momento in cui i ragazzi sono bombardati da suoni, strutture e li devono mettere in ordine. Comunicano solo nella loro lingua o con i gesti, ma in realtà è un momento in cui lavorano moltissimo perché stanno elaborando strutture e suoni che poi verranno fuori… Passato questo stadio, che può essere di mesi ed è tipico dell’apprendimento di qualsiasi lingua straniera, è come se nascessero.
Di botto iniziano a parlare ed è un’emozione incredibile. Ma all’inizio devi usare un vocabolario limitato, dare loro sempre le stesse strutture ed usare dei rituali continui, anche per dar loro delle certezze, delle ritualità: “Buongiorno” o “Arrivederci” quando vai via. Si trovano bombardati da suoni, da abitudini scolastiche diverse, spesso arrivano da scuole dove c’è l’alzabandiera, la marcia, l’inno o anche la divisa. E questo non solo in Cina, ma anche in America Latina. Quindi hanno bisogno che qualcosa sia sempre uguale: suona la campana e si entra in classe, a metà mattina c’è l’intervallo e così via…(continua qui)
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Una città educante
intervista a Luca Borzani
Che funzione ha avuto la scuola nell’integrazione dei minori stranieri a Genova?… La scuola, insieme agli enti locali, è stato il luogo dove negli ultimi dieci anni si è misurato il processo di inclusione degli immigrati. Aggiungerei: con un ruolo di supplenza, in assenza di un progetto o di un disegno politico, e soprattutto di investimenti specifici. Questo non è un elemento secondario perché da una parte la scuola è stata, per gli immigrati, il punto di incrocio tra strategie di vita e opportunità di accesso a nuovi territori e nuove condizioni; dall’altra parte, rispetto ai minori, si è consumato una sorta di processo di adultizzazione che li ha portati a essere “cittadini a scuola e stranieri in città”. Un processo di adultizzazione funzionale nell’ambito delle relazioni quotidiane, ma che non ha condotto ad una reale acquisizione di cittadinanza.
Vale a dire che la scuola è stata percepita e ha funzionato come luogo di accoglienza rimanendo però sostanzialmente isolata dall’insieme delle relazioni comunitarie. Molte famiglie di immigrati infatti hanno costruito una rete di relazioni multietniche nell’ambito della scuola, a cui però spesso non è corrisposta una reale capacità di costruzione di relazioni amicali, che non fossero esclusivamente su base etnica, in ambito cittadino.
Così, la scuola ha costituito un forte elemento di integrazione, ma nello stesso tempo anche un grandissimo alibi, perché ha fatto sì che altre componenti istituzionali si disinteressassero del problema… Detto questo, resta il fatto che la scuola da sola non potrà reggere l’impatto con queste nuove tematiche…
Io poi credo che oggi la riflessione debba focalizzarsi sul tema della seconda generazione, su cui, nonostante l’esperienza francese, c’è un arretratezza culturale consistente: i modelli adottati in questi dieci anni, funzionali sostanzialmente a un’immigrazione adulta e soprattutto maghrebina, si stanno rivelando inadeguati a rispondere alle istanze avanzate dalla seconda generazione…
Tra i principali interventi di integrazione ci sono stati i laboratori interculturali. Di cosa si tratta?Il primo approccio è stato quello dell’apprendimento linguistico. A Genova però, grazie soprattutto all’apporto del Comune, abbiamo cercato di non limitarci all’insegnamento dell’italiano ma abbiamo costruito percorsi laboratoriali interculturali, che prevedessero anche esperienze di bilinguismo, cioè di apprendimento reciproco delle lingue. Anche i bambini genovesi hanno così appreso le prime nozioni di arabo, cinese, albanese…
L’obiettivo è infatti quello di favorire un processo di inclusione non soltanto sul versante linguistico ma anche su quello culturale, facilitando così la creazione di un clima multiculturale e interetnico. Certo, non è un bilinguismo approfondito; in genere è fondato su alcuni testi letterari particolarmente significativi, di immediato richiamo, in modo da promuovere un apprendimento non soltanto di frasi più o meno idiomatiche ma anche di modelli culturali…
Questi laboratori hanno favorito e messo in moto anche un processo di modernizzazione nella scuola, perché il laboratorio, quindi la lezione non frontale, è stato in alcuni casi anticipato proprio dalla multietnicità della classe, che è diventata un valore aggiunto per tutti.
L’integrazione linguistica apre però un’altra questione, altrettanto complessa, il mantenimento della lingua d’origine, bisogno sentito in modo particolare dalla comunità maghrebina e parzialmente dalla comunità cinese. Su questo abbiamo costruito una sorta di patto, mettendo a disposizione risorse soprattutto locali, a condizione che questo insegnamento avesse determinate caratteristiche, non facesse distinzione tra maschi e femmine, fosse aperto a chiunque e non fosse basato su una logica esclusivamente religiosa… è stato un esperimento che ha avuto esiti molto positivi…
D’altronde la perdita della lingua, pericolo che riguarda soprattutto i bambini molto piccoli, può precludere rapporti e relazioni all’interno della famiglia, soprattutto rispetto alle generazioni più anziane… La seconda generazione rischia infatti di trovarsi in un limbo identitario. E’ quindi un tema che non va trascurato perché è proprio su questo, sull’identità, che in futuro si misurerà la contrattazione delle comunità straniere con le istituzioni italiane…
C’è anche un problema di organizzazione dei servizi?In questi anni abbiamo fatto un percorso volto alla costruzione di reti territoriali integrate. E’ un lavoro che ha dato dei buoni frutti, ma che ora rischia di essere svuotato proprio dalla crisi delle risorse..
Quali sono le strategie familiari delle varie comunità rispetto all’investimento su scuola e formazione?Dipende dal livello di consapevolezza delle singole famiglie. Sicuramente è più forte nella comunità ecuadoriana, e molto più articolato e complesso nella comunità maghrebina. E’ forte anche nella comunità cinese, sia pure con il suo tradizionale atteggiamento di separatezza…
Chi viene in Italia pensa di restare. L’idea del ritorno riguarda magari la prima generazione, ma anche qui in misura ridotta; per loro il Paese d’origine rimane punto di riferimento – penso ad esempio ai maghrebini – per dimostrare il successo ottenuto, ma sicuramente quella del ritorno è un’aspirazione assente nella seconda generazione. Quindi stiamo parlando di componenti tendenzialmente stabili nel contesto di una città… Se la situazione è questa, perché non lavoriamo sui percorsi che portano al riconoscimento legale degli studi compiuti nei Paesi d’origine, in Marocco, per dire, e viceversa?
Cosa fanno i minori stranieri quando non sono a scuola?Questo è un altro punto tendenzialmente inedito, soprattutto dove scuola e tempo libero si legano in qualche modo al tema della criminalità e dell’ordine pubblico. Scuola e tempo libero sono i due margini in cui la nostra società costruisce i percorsi pubblici di un minore, anzi, con un discorso ancora più ampio, astrattamente potremmo dire che il loisir è forse il luogo dove si costruisce l’identità collettiva… Qui però si misura anche il rischio di un rapporto col consumo che, se lasciato a se stesso, può essere l’inizio di un percorso verso la criminalità o verso il lavoro nero…
Ci vorrebbe invece un intervento a tutto campo…Certo è che la scuola, da sola, non è assolutamente in grado di portare avanti queste tematiche, anche perché si sta avviluppando in dinamiche in cui a una crescente autoreferenzialità corrisponde una progressiva perdita di autorevolezza. Da agenzia educativa, la scuola si sta trasformando in agenzia sociale; sempre meno capace di produrre cultura. Quello slogan degli anni ’70, “la scuola aperta al territorio”, oggi corrisponde assai poco alla realtà. Se volessimo fare un’operazione corretta, forse dovremmo rovesciarlo, perché oggi è il territorio che si dovrebbe aprire alla scuola... Il territorio dovrebbe diventare un pezzo di comunità “educante”…
Io credo che oggi il nostro compito sia di passare da una cultura delle opportunità a una cultura della costruzione della cittadinanza. E’ un tema che più che le risorse riguarda la cultura dei diversi soggetti che operano in questo ambito. Noi parliamo di “Città educante” che significa iniziare a chiedersi seriamente quale sia uno sviluppo desiderabile del sistema educativo e quali agenzie, anche formalmente non educative, debbano assumersi questo compito…
E’ ovvio che a questo livello la distinzione tra stranieri e italiani perde di senso e la questione degli stranieri non viene più scissa dalla problematica più generale, che è quella dell’apprendimento dei saperi. Forse la grande differenza, rispetto a dieci anni fa, è costituita dal fatto che l’integrazione degli stranieri nella scuola e nella comunità in generale, pur possedendo una sua specificità, viene assunta come una delle tante varianti di una strategia più globale, che riguarda tutti.(continua qui)
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