giovedì 13 giugno 2013

leggere ai bambini e pediatria

 

fonte: comuneinfo

Io pediatra dei piccoli concittadini

Una mamma romena ha cantato una canzone con la chitarra, un papà brasiliano ha illustrato una novella con le marionette, un carabiniere napoletano ha raccontato la favola della rana dalla bocca larga, una mamma egiziana ha ricordato quella notte nel deserto. Persone comuni, una volta al mese, si incontrano con i propri bambini dal loro pediatra-artista-ciclista un po’ bizzarro, Andrea Satta, per raccontarsi favole e costruire nuovi legami sociali. Accade in un ambulatorio della periferia di Roma, tra termosifoni verdi e lampadari rossi. Non lo dite a Grillo e Alemanno
di Andrea Satta*
immigrantchildren-e1347382406741L’Italia è troppo in mezzo al mondo e il tram della storia non fa fermate a richiesta, da noi. È esposta a tutti i venti e ogni sillaba sussurrata in una bocca chissà quanto lontana, ogni lacrima distratta, cade qui. Tutto da qui passa. È una responsabilità universale. E noi siamo piccoli uomini, con il nostro semplice lavoro, impigliati nelle auto, tra le lamiere delle tangenziali, i treni scalcinati, i giornali del passato, i phon, i pad e le vite parallele che avremmo voluto fare.
Abbiamo i soldi, avevamo i soldi, abbiamo il benessere, avevamo il benessere, abbiamo la prevenzione, avevamo la prevenzione, abbiamo i diritti, avevamo i diritti, abbiamo un modello sociale, avevamo un modello sociale. Molti sono tristi. La disperazione però, quella vera, abita altre strade, quella che non ha bisogno della psicanalisi, quella che non urge di interpretazione ha altri indirizzi. Vite di fango e di siccità, spari nel buio, immondizia, scuole assenti o lontane e una speranza perennemente affacciata ad un balcone sul Mediterraneo, con i fiori sull’altro lato del marciapiede.
Medico di base
Me lo hanno raccontato le mamme del mio ambulatorio, il loro mondo. Sì, perché, anche se vicino alla mia fotina c’è scritto «Andrea Satta musicista e scrittore», tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, io faccio il pediatra, il pediatra di base, nella periferia di Roma. E sono un fan della struttura pubblica. Il pediatra di base è una delle poche figure-presidio che attraversa la società trasversalmente. Nella maniera più democratica è aperta alla gente e non sceglie, ma si fa scegliere.
Si chiama «Pediatria di Libera scelta». Non è una parrocchia, non è la sede di un partito politico, può essere un luogo di incontro, è un valore immenso. Nel mio ambulatorio colorato, con quasi mille bambini, giocattoli e termosifoni verdi e gialli, porte rosa e celesti e lampadari rossi, sto facendo un esperimento. Una sera venne da me una mamma araba. Ultima della fila, mi disse: «Andrea, sono otto anni che sto in Italia e non sono riuscita a farmi neanche una nuova amica, le uniche persone che conosco sono le due ragazze del mio Paese, partite con me otto anni fa …».
Rimasi molto colpito e un po’ di senso di colpa si fece strada dentro di me, sarà perché, pur laico, ho una mamma supermanzoniana, ma nella testa quelle parole mi sono risuonate come un’accusa. Non potevo non affrontare la solitudine. Un pomeriggio che pioveva, dentro la mia macchina gialla che prendo raramente, perché amo i pedali, sulla tangenziale, in mezzo all’acqua a secchi di un settembre, mi venne l’idea. Semplice, quindi, migliore.
L’appuntamento del lunedì
sattaDa allora, una volta al mese, il lunedì, quattro mamme straniere e due mamme italiane vengono con i loro bambini a raccontare la favola con cui si addormentavano da piccole a casa loro, nella loro lingua e nell’italiano che conoscono. All’inizio, feci proprio il contrario di quello che come pediatra predico. Pur di attirare i piccoli, compravo patatine, Coca Cola, aranciata, e ogni genere di cibo poco consigliato. Temevo timidezza e diffidenza, ma le mamme mi hanno stracciato. Ho capito che poteva funzionare, quando sono comparsi i biscotti palestinesi, i cous cous, le frittate romene piene di cipolla, le schiacciate calabresi. E di lunedì, nel mio ambu, si fa festa, un incontro con le favole del mondo da quattro anni.
Il 40 per cento dei miei bambini ha la mamma o il papà che non è nato in Italia. Vengono da tutti e 5 i continenti, da 35 Paesi del mondo, ne ho pure uno della Nuova Zelanda. Manca l’Antartide, ma è disabitato … E non sono un’eccezione, queste sono le periferie. Eppure tutti qui sperano, lavorano, amano i loro figli, accettano le regole e soffrono di solitudine. Molte mamme mi hanno detto che ora si incontrano il pomeriggio con le altre e che la prima volta è successo in ambu. Si aiutano con i bambini, si parlano nei piccoli giardini. Avviene fra popoli diversi. Gli stranieri non sono solo stranieri nei confronti degli italiani, ma sono anche stranieri fra loro. Ragazze del Marocco hanno sposato uomini romeni e religioni, lingue e costumi convivono e io ne devo tenere conto nello svezzamento, nel pensiero della malattia e della guarigione, nel valore dell’ansia, nel ruolo della mia professione. Il senso dell’attesa non è certo uguale dappertutto e neppure quello del destino. Io, nel frattempo, imparo.
Ora ho prenotazioni per la «giornata delle favole» fino a settembre. Di tutto questo abbiamo fatto un libro, Ci sarà un volta, il cui incasso è devoluto ad Emergency, al fine di sostenere un ospedale pediatrico nella periferia di Khartoum, in Sudan. Mio compagno, come sempre, Sergio Staino che ha regalato al libro, alle mamme e ai bambini 23 tavole in china, meravigliose e ho potuto arricchire il libro, edito con amore dalla Infinito Edizioni, con le parole introduttive di Moni Ovadia e Dario Vergassola.
Un carabiniere napoletano ha raccontato la favola della rana dalla bocca larga, una mamma romena ha cantato una canzone con la chitarra, un papà brasiliano ha illustrato una novella con le marionette con cui si diletta da sempre, lasciando i bambini a bocca aperta. Una mamma egiziana ci ha raccontato di una notte nel deserto, una ragazza romena ci detto, una sera, che lei è stata tre mesi in un bosco vicino Sarajevo, a 17 anni, sotto le bombe, cercando di venire in Italia, dormendo con una trentina di sconosciuti e ora che ha sposato un ragazzo italiano e ha due bambine bellissime, è felice. Molti hanno attraversato il Mediterraneo sui barconi, e l’Adriatico sui gommoni e c’era chi voleva scaricare loro addosso i cannoni. Sono giovani, sono qui da anni, vogliono restare. Non è abbastanza per essere anche italiani? E se avessero diritto di vivere un po’ felici e un po’ contenti?

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